BIOGRAFIA

Pier Franco Uliana è nato a Fregona e vive a Mogliano Veneto. Laureato in Filosofia, è stato insegnante. Ha pubblicato una quindicina di raccolte di poesie sia nel dialetto veneto del Bosco del Cansiglio, tra cui Troi de Tafarieli (2001, presentazione di Franco Loi), Il bosco e i varchi (2015, nota di Edoardo Zuccato) e Per una selva (2018, nota di Giorgio Agamben), sia in lingua, tra cui Ornitografie (2016). Ha inoltre dato alle stampe racconti, studi di toponomastica e di linguistica, tra cui Lessico etimologico del dialetto rustico del Vittoriese (2018) e Voci del dialetto vittoriese di origine celtica e germanica (2022, nota di Lorenzo Tomasin). Suoi testi critici sono apparsi in cataloghi di artisti veneti. Ha ricevuto, tra gli altri, il Premio “Noventa-Pascutto” (1995), il Premio “Fondazione Corrente” (2001), il Premio “Pascoli” (2015), il Premio speciale “Campana” (2019), il Premio “Salva la tua lingua locale” (2020).
LETTURE

POESIE
CONTRA BELLUM
(5 lettere dal Novecento)
I. LA TERRA DESOLATA
I was a wasp of New England
(natione non moribus).
Al primo quarto di mia vita guadai
il vallo atlantico fino agli Champs Elysées.
Flegiàs, elmo chiodato, mi sospinse poi
dentro al cuore della City (of Dite)
da cui non feci più ritorno.
Da lì, dopo l’esondazione del Flegetonte
(dai Laghi Masuri alla Marna al Piave alla Manica),
per la Respublica christiana vidi crescere
la paglia senza spiga, buona solo per spaventapasseri,
i papaveri nelle menti bracciantili,
il ricino per infusi nel Bel Paese
e i colchici per decotti nella Magna
e dalla Lloyds Bank una nevrosi
che infestò anche la vita di Vivien.
Il miglior fabbro mi limò e forgiò.
E un Mercoledì delle Ceneri in ginocchioni al
som de l’escalina scelsi Chiesa Monarchia e Metodo
mitico. Rovistai tra capitelli bizantini e la
suburra londinese e nella chimica e fisica
e metafisica ed etica, ordine geometrico
demonstrata, e nell’antro di Platone e di Sibilla
e nei poemi e nelle operette, nelle canzonette …
Rivisitai epoche ed epopee d’occidente.
Salii candide rose, iperuranî, cieli tolemaici,
giardini pensili, acropoli, attici, soffitte …
Scesi necropoli, ipogei, catacombe, mausolei,
cappelle rinascimentali, cripte barocche,
sepolcri neoclassici, cimiteri romantici,
ossari, cantine, sottoscala…
Misi a sacco scriptoria e biblioteche
e pinacoteche e cineteche …
e tutte le terre emerse
(io che aborrivo il Wild West)
e Cocito (io che ero spirito apollineo)
e il Mare Nostrum
(io che venivo da oltre le Colonne d’Ercole).
Non ne trassi che un pugno di polvere ultraterrena,
a mostrare il terrore, e frammenti
per puntellare il Credo mutilo.
Dal bosco sacro trafugai il Ramus Aureus,
dal bosco ctonio il ramo della Vigna.
Dissi del lusso e di lussurie e vissi
l’apocalisse del quotidiano.
Tutto, seppur confusamente, scrissi
in vv. 433.
Thomas Stearns Eliot

II. MOTTETTO ANDALUSO
Prima toccò a gitani e omosessuali,
poi ai democratici, infine agli ebrei…
larve raminghe per un cielo perso:
l’empireo, quello ctonio, d’olocausto.
La psiche mia s’impigliò nelle spine
dei roseti, per terra di Granada
ora canta, senza temerne l’ombra,
come cicala del piombo ha saputo
rivestire le ali, sì da assordare
in eterno falangi di franchisti.
Federico Garcìa Lorca

III. FUGA DELLA MORTE
Dopo i lavori forzati e l’orfana fuga dalla morte
mutai il cognome per metatesi delle sillabe,
non la condizione di forzato,
non la convinzione
che la tragedia serve solo se è catartica.
Per quanto pensassi al papavero,
per quanto Gisèle dipingesse il rosso di sera,
l’INRI giallo non scoloriva,
restava lì sul Golgota della memoria
con i suoi garofani sfioriti
impiantato nel teschio d’Adamo.
(E l’altrove non era che come il qui,
se la rosa di nessuno fu assiderata
dalla stella siberiana.)
Se poeticamente abita l’uomo,
e con cura si dà una radura, e una dimora,
e un genius loci, perché Martin,
dicendo della mania tedesca del Lebensraum,
taci della sepoltura nell’aria? Forse
perché l’aria non ha luogo come la diaspora?
La filosofia è asserzione di verità e alla verità,
che come il fumo israelita
si rivela nascondendosi in una nube,
si accede attraverso la memoria. Ma
quando la poesia scava nell’assenza
è afasia o follia, senza mani a trattenere
i capelli di cenere di Sulamith,
senza terra dove coltivare la rosa
bianca,
invece tu Martin taci anche delle cesoie
per costruirti il recinto elettrico del silenzio.
Paul Celan

IV. BOMB
Quando
quel mio connazionale Fermi,
nuovo Prometeo, pensò la rosa dell’atomo,
la pensò in forma di fungo e in lingua inglese
e quando sbocciò nel deserto dell’Arizona
l’algoritmo fu confermato in tutta
la sua folgorante verità trinitaria:
rosso-padre dell’esplosione
giallo-figlio del lampo
spirito-bianco
di lutto.
Gli dissero che la terra
dell’aiuola zen di un qualche
giardino arido giapponese era la più adatta
a farla crescere vigorosa e in fretta il mese
migliore agosto un giorno qualunque
della prima decade: io ne diedi
il calligramma.
Seppellitemi
in terra straniera
nel Cimitero degli Inglesi accanto
a Shelley o disperdete le mie ceneri
al cesio presso la piramide di Gaio
Cestio: seppellitemi in Roma
il più lontano possibile
da Mary.
Gregory Corso

V. La memoria è come il mare
Non ero poeta ancora,
ma uomo quando vivo
entrai nell’inferno a cielo aperto e vivo ne uscii,
solo questo ha in comune la mia tragoedìa
con la Comedìa.
Se per salire al giardino terrestre
alla candida rosa
bisognava scendere alla Città di Hitler,
io non andai oltre il filo spinato.
L’inferno non ha nulla dei nomi mitici,
fa semplicemente Vernichtunsglager,
le cui coordinate geografiche
trovare tu puoi sulle carte di Germania,
non è luogo di ogni luce muto
se la notte lo illumina il riflettore e il bengala
e la bomba lanciata per vezzo
e il bagliore della Spandau dalle altane
e la scia delle traccianti
e il lampo della carne che sfrigola
sui fili elettrici di recinzione
e il fascio delle pile che frugano i block
e la lampada scialitica
e le fiamme senza luce dell’ustrina
e il fuoco dell’acetilene sugli avambracci…
E il giorno una fitta pioggia di cenere fredda
e greve che io ben so in quanto chimico.
Entrai nell’inferno e ne uscii vivo
e non fu chiacchierata di tre giorni
ma sordo, biennale, incontenibile,
uguale, incoercibile, corale
urlo di terrore, da corde vocali recise.
Entrai nell’inferno e ne uscii vivo
ma la psiche vi persi.
Per il debito lo qual dovea al canto XXVI
della I cantica posi ad epigrafe
della mia catabasi la poesia eponima,
pur sapendo che dopo Auschwitz
la poesia non è più possibile.
Tentavo a modo mio di rimuoverne il ricordo,
pur sapendo che il rimosso,
un correligionario lo scrisse,
ritorna come sintomo.
Sento i latrati
dei lupi e i gridi rauchi dei licantropi
giù nella strada,
risalgono la tromba delle scale…
Il rastrellamento è ricominciato.
Primo Levi