
Festival Internazionalista della Poesia Rivoluzionaria, Bari-Bitonto dal 18 al 23.10.2022

Festival Internazionale di Poesia
Ed. 2022 – Fotografie di Flaminia Cruciani
Fotografie di Flaminia Cruciani
Le donne e la guerra
Tre testi in omaggio a Mario Geymonat
di Anna Chahoud, Lorenzo Fort, Charlie Kerrigan
LETTURE
TESTI
1. Antico epigramma funerario da Corfinio (CIL 9. 3184, testo di E. Courtney,traduzione e nota di Anna Chahoud).
Di questo bimbo sappiamo solo che aveva due anni e mezzo quando“… lo strappò un tetro giorno e in morte acerba sommerse” (Virgilio, Aen. 6.429). Nulla è più crudele della morte di un bimbo, sorte infausta o mano scellerata, non fa differenza. Il dolore di chi gli ha dato la vita si rifugia nell’invocazione a chi ascolta, a chi legge. Il mesto, formulare augurio sit tibi terra levis si apre ad accogliere l’appello di questa madre, quasi sussurrato tra virgole: madre non son più io, ma tu, Terra benevola: non opprimerlo, fallo rifiorire alla luce del sole.
Rimbomba invece ora il grido delle madri sulla nostra terra insanguinata. Pietà, basta.
HIC IACET OPTATVS PIETATIS NOBILIS INFANS,
CVI PRECOR VT CINERES SINT IA SINTQVE ROSAE,
TERRAQVE, QVAE MATER NVNC EST, SIBI SIT LEVIS ORO,
NAMQVE GRAVIS NVLLIS VITA FVIT PVERI.
ERGO, QVOD MISERI POSSVNT PRAESTARE PARENTES,
HVNC TITVLVM NATO CONSTITVERE SVO.
Qui giace il bimbo Optato
Lo conoscevano tutti, affettuoso com’era
Prego che le sue ceneri siano giacinti e siano rose
E la Terra—è lei sua madre ora—imploro gli sia lieve,
perché la vita del bimbo mai a nessuno pesò.
Questo epitafio dunque vollero i genitori per il figlio
Null’altro possono nel loro dolore.
2. Virgilio, Eneide, IX. 473–502 (premessa di Lorenzo Fort)
Composto sulla scorta della spedizione notturna di Ulisse e Diomede nel campo troiano (Iliade X), Virgilio crea un episodio originale, umanamente più ricco e poeticamente più alto, che ha per protagonisti due giovani amici, Eurialo e Niso.
Mentre Enea è assente (è andato a chiedere aiuto ad Evandro e agli Etruschi) e il campo troiano è assediato dai Rutuli, Niso, bramoso di gloria, concepisce l’idea di raggiungere Enea per informarlo della situazione, eludendo la sorveglianza dei nemici, immersi nel sonno procurato dalle troppe libagioni. Gli si affianca Eurialo, altrettanto desideroso di gloria. Prima di partire Eurialo raccomanda ad Ascanio la madre che non è rimasta in Sicilia insieme alle altre donne, ma ha seguito il figlio al campo.
I due giovani guerrieri, sorpresi una parte dei nemici nel sonno, ne fanno strage e si caricano di bottino. Sarà proprio per colpa di un elmo colpito dai raggi della luna che vengono avvistati da una formazione di 300 cavalieri latini, comandati da Volcente. Fuggono, ma Eurialo, appesantito dalla preda, resta impigliato e viene raggiunto. Niso allora torna indietro per aiutare l’amico, ma alla fine entrambi trovano la morte, con Niso che, trafitto, si getta sul corpo di Eurialo per riposarein una placida morte (placida… morte quievit, 9.445).
La notizia di quanto avvenuto arriva alla madre di Eurialo, di cui segue quindi il lamento. Un lamento che ha per modello quello di Andromaca (Iliade 22.437-515) la quale, intenta a filare in casa, viene scossa dal grido lacerante, proveniente dalle mura, di Ecuba che annuncia la morte di Ettore. Così, anche la vecchia madre di Eurialo, ignara della sortita e intenta a filare in casa, smarrita e disperata si precipita sulle mura, urlando e piangendo alla vista orrenda del capo mozzato del figlio.
Ma, accanto a quella omerica, Virgilio cita anche, se pur rapidamente, la propria Andromaca di Eneide 3.300ss., lì dove al v. 475, per descrivere la reazione della madre di Eurialo alla terribile notizia, impiega la stessa espressione (at subitus miserae calor ossa reliquit) utilizzata per Andromaca alla vista di Enea e dei suoi (3.308).
Va rilevato che il lamento della madre di Eurialo, come tutti i compianti del poema, non è pronunciato durante la cerimonia funebre, quando ormai la sofferenza ha già avuto modo di sfogarsi e dunque può essere più controllata, bensì al primo, violento scoppio di dolore quando la Fama porta la notizia della morte di una persona cara (così sarà anche quello di Giuturna per la morte del fratello, o quelli di Evandro e di Mezenzio, entrambi per la prematura scomparsa dei figli, rispettivamente Pallante e Lauso). Tuttavia il lamento della madre di Eurialo, costruito in modo da enfatizzare la prima, terribile reazione alla notizia della morte del figlio, dà tuttavia l’impressione di rappresentare simbolicamente tutti i lamenti delle madri di caduti in guerra, le donne che tradizionalmente non hanno voce se non per piangere i loro cari e che nella morte di questi perdono ogni ragione per continuare a vivere. E questa è la novità di Virgilio, che evidenzia gli aspetti più umani della guerra: se nell’epica antica i genitori piangono sì la morte dei figli, tuttavia trovano consolazione nel loro comportamento valoroso, in questo caso, viceversa, nessun pensiero alla gloria conseguita da Eurialo può mitigare il dolore di questa madre che, come tutte le madri che hanno vissuto per i loro figli, non trovano più motivo di sopravvivere dopo la loro perdita.
Testo: Virgilio, Eneide, IX. 473–502 e lettura
Interea pavidam volitans pinnata per urbem
nuntia Fama ruit matrisque adlabitur auris
Euryali. At subitus miserae calor ossa reliquit,
excussi manibus radii revolutaque pensa.
Evolat infelix et femineo ululatu,
scissa comam, muros amens atque agmina cursu
prima petit, non illa virum, non illa pericli
telorumque memor, caelum dehinc questibus implet:
«Hunc ego te, Euryale, aspicio? tune ille senectae
sera meae requies, potuisti linquere solam,
crudelis? nec te sub tanta pericula missum,
adfari extremum miserae data copia matri?
heu, terra ignota canibus data praeda Latinis
alitibusque iaces! nec te tua funera, mater
produxi pressive oculos aut vulnera lavi,
veste tegens tibi quam noctes festina diesque
urgebam et tela curas solabar anilis.
Quo sequar? aut quae nunc artus avolsaque membra
et funus lacerum tellus habet? hoc mihi de te,
nate, refers? hoc sum terraque marique secuta?
Figite me, si qua est pietas, in me omnia tela
conicite, o Rutuli, me primam absumite ferro;
aut tu, magne pater divom, miserere, tuoque
invisum hoc detrude caput sub Tartara telo,
quando aliter nequeo crudelem abrumpere vitam».
Hoc fletu concussi animi, maestusque per omnis
it gemitus, torpent infractae ad proelia vires.
Illam incendentem luctus Idaeus et Actor
Ilionei monitu et multum lacrimantis Iuli
corripiunt interque manus sub tecta reponunt.
Traduzione di Lorenzo Fort
Intanto la Fama, alata messaggera, volando
corre per la città atterrita e arriva agli orecchi della madre
di Eurialo. E subito il calore abbandonò le ossa dell’infelice,
la spola le cadde dalle mani e si srotolò il gomitolo.
Si slancia fuori l’infelice e con femminee grida
strappata la chioma, fuori di sé si precipita
alle mura e alle prime schiere, immemore degli uomini e
del pericolo dei dardi; quindi il cielo riempie di lamenti:
«Così, Eurialo, io ti vedo? tu, tardo ristoro
della mia vecchiaia, hai potuto lasciarmi sola,
o crudele? E a te, mandato incontro a tanti pericoli,
non fu concesso alla madre di dare l’ultimo addio?
Ahimè, in terra straniera, preda abbandonata ai cani latini
e agli uccelli, tu giaci, né io, tua madre, accompagnai
le tue esequie o ti chiusi gli occhi o lavai le ferite,
coprendoti con la veste cui, sollecita, notte e giorno
attendevo e con la tela consolavo le mie ansie senili.
Dove potrò cercarti? quale terra mai possiede ora le tue membra
e il corpo divelto e il lacero cadavere? solo questo di te
mi riporti, figlio? questo ho seguito per mare e per terra?
Trafiggete me, se in voi c’è un po’ di pietà, tutte le frecce
scagliate contro di me, o Rutuli, me per prima uccidete col ferro.
Oppure tu, grande padre degli dèi, abbi pietà, e con il tuo
fulmine precipita nel Tartaro questo mio capo odioso,
poiché non posso spezzare altrimenti la vita crudele».
Da questo lamento furono scossi gli animi e fra tutti
va un mesto gemito; languono le forze, fiacche alla battaglia.
Lei, che infiammava il lamento, Ideo e Attore,
esortati da Ilioneo e da Iulo che molto piangeva,
prendono e a braccia riportano a casa.
3. Svetlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna (selezione di Charlie Kerrigan, traduzione di Anna Lombardo)
In questo brano la storica e premio Nobel Svetlana Aleksievič (n. Ivano-Frankivsk, 1948) riflette sul suo metodo nello scrivere La guerra non ha un volto di donna, una storia delle esperienze delle donne come soldati, cecchini, inservienti medici e meccanici nella Seconda guerra mondiale. Il libro si basa su migliaia di ore di testimonianze orali ed è stato pubblicato per la prima volta nel 1985.
Tutto quello che conosciamo della guerra è attraverso una “voce maschile”. Noi tutti siamo prigionieri di concetti “maschili” e del loro senso “maschile” della guerra. Parole “maschili”. Le donne sono silenti. Nessuno, tranne me, ha mai chiesto niente a mia nonna. A mia madre. Anche quelle che sono state al fronte non parlano. Se all’improvviso cominciano a ricordare, non dicono della guerra delle “donne” ma di quella degli “uomini”. Si adeguano al canone. E solo in casa o, in lacrime tra le loro amiche veterane, cominciano a parlare della loro guerra, la guerra a me sconosciuta. Non solo a me, ma a noi tutti. Più di una volta, durante le mie trasferte di giornalista, sono stata testimone, ed io sola ascoltatrice, di storie assolutamente nuove. E ne ero stata fortemente scossa, come durante la mia infanzia. Attraverso quelle storie si vede il sogghigno mostruoso dell’oscuro… Quando le donne raccontano, non c’è nulla o quasi nulla di ciò che siamo abituate a leggere o ascoltare: come alcune persone eroicamente uccidano altre persone e vincono. O perdono. Che tipo di equipaggiamento c’era e quali generali. Le storie delle donne sono differenti e parlano di cose differenti. La guerra al “femminile” ha i suoi colori, i suoi odori, le sue luci, e la sua gradazione di sentimenti. Sue proprie parole. Non ci sono eroi e incredibili gesta, c’è la gente umile impegnata nelle cose umanamente disumane. E non soffrono solo loro (la gente!) ma anche la terra, gli uccelli, gli alberi. Tutto ciò che sulla terra vive assieme a noi. Soffrono senza proferir parole, ciò è ancora più terrificante. Ma perché? Me lo sono chiesta più di una volta. Perché, avendo occupato e mantenuto il loro posto in un mondo assolutamente maschile una volta, le donne non hanno lottato per la loro narrazione? Le loro parole e sentimenti? Non ci hanno creduto. Un mondo intero è stato a noi tutti celato. La loro guerra rimane sconosciuta…
Io voglio scrivere la storia della guerra. Una storia al femminile.
***
Quanto valgono i classici nel duemilaventidue? Oggi stiamo imparando sempre più come i testi dall’antichità sono limitati in modo rilevante. I famosi storici, per esempio, quando parlano di guerra, ne parlano quasi sempre con distacco e casuale, una cosa di stato, dal punto di vista élite e maschile. La poesia fa meglio, e nel caso di Virgilio, come ci mostra Lorenzo, abbiamo una vera e terrificante immagine degli orrori di guerra, orrori che abbiamo tutti in mente in questi giorni. Virgilio ci da qualcosa di nuovo. Ci sono anche testi non così famosi, fuori dal’ canone, che ci danno un senso delle vite e morti di gente comune: uomini, donne, e bambini. Per me, l’epigramma da Corfinio è tanto vero e importante quanto il poema virgiliano, e non posso dire di meglio delle parole forti e commoventi di Anna. Finalmente, i classici parlano ad altri testi da altri luoghi e altri tempi, e nel’ libro di Alexievich, troviamo una storia indimenticabile di qualcosa spesso dimenticato, una storia intitolata ‘la guerra non ha un volto di donna’. C’è un idea nella tradizione irlandese, che parla ‘della musica di quello che succede’. La vita come sta, non come voremmo che sia. Penso che i nostri tre brani parlino, insieme e nei propri modi, di questa musica, e li abbiamo condivisi con voi stasera, con piacere, in omaggio a Mario, e al suo lavoro.
Charlie Kerrigan
BIOGRAFIA
Gaia Zaccagni (1972) si occupa di filologia e letteratura bizantina e neogreca, e insegna Lingua Greca e Lingua Italiana presso l’Università di Cipro. Ha curato l’edizione critica di testi agiografici dell’Italia meridionale (Roma 1997) e di parte del corpus omiletico di Filagato da Cerami (Roma 1999). Ha pubblicato studi inerenti al patrimonio manoscritto dell’isola di Lesbo (Mitilene 2006). Ha pubblicato il volume “Luoghi, parole e ritmi dalla Grecia moderna”, Edizioni Nuova Cultura (2007). Cura la collana Isalo (ed. Ensamble), specializzata su testi della letteratura cipriota in traduzione italiana, di cui sono usciti i primi due volumi Theodosis Nikolaou, Poesie, traduzione e cura di G. Zaccagni, Ensemble ed., Roma 2015; Pantelis Michanikos, Poesie, traduzione e cura di G. Zaccagni, Ensamble ed., Roma 2016. Dirige la Collana “I gelsomini di Cipro”, ETPBook, Atene. Ha pubblicato raccolte poetiche, in italiano e in greco (Anemoskorpismata- Sparse nel vento, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2007; Εν πλω πάντα κλειστή, ed. Melani,Athens 2014; Altrove, ed. Ensamble, Roma 2016, Erbario di Aprile, Kemanes Print Shop, tiratura limitata, Lefkosia 2016). Si occupa di musica greca, sia a livello teorico che pratico, e din particolare al genere Rebetiko, su cui ha pubblicato il volume in italiano Ma che vita è questa? 85 canzoni rebetike della crisi,ETPBooks, Atene 2018 e in greco Zωή ‘ναι αυτή; [Η κρίση στο ρεμπέτικο] 146 τραγούδια: ανθολογία, ανάλυση, σχολιασμός, ΕΤPΒοoks, Atene 2020.
LETTURE
POESIE
Pettine/ Pecten jacobeus Linnaeus
[Pleocene 5- 1,8 milioni di anni fa]
Due isolotti
dalla crosta pelasgica
emersero fra schiume
come draghesse furiose
dal desiderio
che anelano a un respiro,
dopo anni subacquei
d’oblio e oscurità.
Quel pettine
che carezzava estroso
le chiome sinuose come alghe della gorgone
si pietrificò, si fece pallido
ed ora anela la bellezza
evaporata
della fanciulla marina
che incantava le folle.
Un tempo qui era mare
di umide correnti
e acquosi amplessi.
Ora, pesante cade la terra
laddove i limiti
dividono e sopprimono
campi di non facile accesso
in cui pullulano
le deserte reliquie
di un’antica armonia.
Linea verde
Felicità dubbia, mi dirai,
quella di chi al mattino
spalanca la finestra
su una linea di confine
nascosta fra le palme.
Eppure l’aria entra frizzante,
gli uccelli fanno festa
il moezin canta rimodulando
parole dette ridette e mai desuete
e il vento fischia
tra il filo spinato e se ne infischia
del soldato che osserva la bandiera
con uno sguardo obliquo
e assente
di chi si pente
di aver sparato
a quei colombi stanchi
appollaiati
sulla mezzaluna bianca e sulle nove onde
blu del cielo.
Su quella linea d’attesa
dove ti fermi e sospendi
il passo
su mille sentieri d’onde
e di risacche
che approdano
a liti d’assenze
e lontananze
sulla spuma bianca di schizzi
che schiantano su scogli neri
l’impeto ardente
d’una tempesta d’ali
io ti figuro
e scandisco
frammenti di tempo
e liquide memorie.
Una trama
friabile e densa
d’anima e corpo
*
Il tempo non ha forma.
E’ il battere del vento
sugli stessi sassi
da immemorabili millenni.
Σχήμα δεν έχει ο χρόνος
είναι ο αέρας που χτυπά
εδώ και χιλιετίες
πάνω στα ίδια βράχια
αφήνοντας
μελανιασμένα ίχνη
στα υγρά μονοπάτια
του βυθού
3.Pres/assenza
il pianto
in mezzo al mare
ha un sapore strano
insipido
asciutto.
sgorga
dal di dentro,
s’imbeve
dal di fuori.
spezza
i confini
tra corpo anima spazio tempo.
quell’acqua amara
del lago di Van
colma di corpi
morti
esalati
evaporati
assunti
in molecole di soda
bianca scia
tersa e cristallina
di navi che viaggiano
incorniciate dai monti
4.MENTHA PIPERANSCENS
Di menta e di cannella
Avevo pieni gli occhi
E le narici
Ed ubriaca mi pascevo
Del canto degli uccelli.
Quando una nube cupa
E minacciosa
ristette sulla quercia di Dodona
E seppi allora
Ch’era giunto il tempo.
E goccia a goccia
Caddero venti di guerra
E solo l’elicriso d’oro
Invase le vallate
Aride di pena.
BIOGRAFIA
Pier Franco Uliana è nato a Fregona e vive a Mogliano Veneto. Laureato in Filosofia, è stato insegnante. Ha pubblicato una quindicina di raccolte di poesie sia nel dialetto veneto del Bosco del Cansiglio, tra cui Troi de Tafarieli (2001, presentazione di Franco Loi), Il bosco e i varchi (2015, nota di Edoardo Zuccato) e Per una selva (2018, nota di Giorgio Agamben), sia in lingua, tra cui Ornitografie (2016). Ha inoltre dato alle stampe racconti, studi di toponomastica e di linguistica, tra cui Lessico etimologico del dialetto rustico del Vittoriese (2018) e Voci del dialetto vittoriese di origine celtica e germanica (2022, nota di Lorenzo Tomasin). Suoi testi critici sono apparsi in cataloghi di artisti veneti. Ha ricevuto, tra gli altri, il Premio “Noventa-Pascutto” (1995), il Premio “Fondazione Corrente” (2001), il Premio “Pascoli” (2015), il Premio speciale “Campana” (2019), il Premio “Salva la tua lingua locale” (2020).
LETTURE
POESIE
CONTRA BELLUM
(5 lettere dal Novecento)
I. LA TERRA DESOLATA
I was a wasp of New England
(natione non moribus).
Al primo quarto di mia vita guadai
il vallo atlantico fino agli Champs Elysées.
Flegiàs, elmo chiodato, mi sospinse poi
dentro al cuore della City (of Dite)
da cui non feci più ritorno.
Da lì, dopo l’esondazione del Flegetonte
(dai Laghi Masuri alla Marna al Piave alla Manica),
per la Respublica christiana vidi crescere
la paglia senza spiga, buona solo per spaventapasseri,
i papaveri nelle menti bracciantili,
il ricino per infusi nel Bel Paese
e i colchici per decotti nella Magna
e dalla Lloyds Bank una nevrosi
che infestò anche la vita di Vivien.
Il miglior fabbro mi limò e forgiò.
E un Mercoledì delle Ceneri in ginocchioni al
som de l’escalina scelsi Chiesa Monarchia e Metodo
mitico. Rovistai tra capitelli bizantini e la
suburra londinese e nella chimica e fisica
e metafisica ed etica, ordine geometrico
demonstrata, e nell’antro di Platone e di Sibilla
e nei poemi e nelle operette, nelle canzonette …
Rivisitai epoche ed epopee d’occidente.
Salii candide rose, iperuranî, cieli tolemaici,
giardini pensili, acropoli, attici, soffitte …
Scesi necropoli, ipogei, catacombe, mausolei,
cappelle rinascimentali, cripte barocche,
sepolcri neoclassici, cimiteri romantici,
ossari, cantine, sottoscala…
Misi a sacco scriptoria e biblioteche
e pinacoteche e cineteche …
e tutte le terre emerse
(io che aborrivo il Wild West)
e Cocito (io che ero spirito apollineo)
e il Mare Nostrum
(io che venivo da oltre le Colonne d’Ercole).
Non ne trassi che un pugno di polvere ultraterrena,
a mostrare il terrore, e frammenti
per puntellare il Credo mutilo.
Dal bosco sacro trafugai il Ramus Aureus,
dal bosco ctonio il ramo della Vigna.
Dissi del lusso e di lussurie e vissi
l’apocalisse del quotidiano.
Tutto, seppur confusamente, scrissi
in vv. 433.
Thomas Stearns Eliot
II. MOTTETTO ANDALUSO
Prima toccò a gitani e omosessuali,
poi ai democratici, infine agli ebrei…
larve raminghe per un cielo perso:
l’empireo, quello ctonio, d’olocausto.
La psiche mia s’impigliò nelle spine
dei roseti, per terra di Granada
ora canta, senza temerne l’ombra,
come cicala del piombo ha saputo
rivestire le ali, sì da assordare
in eterno falangi di franchisti.
Federico Garcìa Lorca
III. FUGA DELLA MORTE
Dopo i lavori forzati e l’orfana fuga dalla morte
mutai il cognome per metatesi delle sillabe,
non la condizione di forzato,
non la convinzione
che la tragedia serve solo se è catartica.
Per quanto pensassi al papavero,
per quanto Gisèle dipingesse il rosso di sera,
l’INRI giallo non scoloriva,
restava lì sul Golgota della memoria
con i suoi garofani sfioriti
impiantato nel teschio d’Adamo.
(E l’altrove non era che come il qui,
se la rosa di nessuno fu assiderata
dalla stella siberiana.)
Se poeticamente abita l’uomo,
e con cura si dà una radura, e una dimora,
e un genius loci, perché Martin,
dicendo della mania tedesca del Lebensraum,
taci della sepoltura nell’aria? Forse
perché l’aria non ha luogo come la diaspora?
La filosofia è asserzione di verità e alla verità,
che come il fumo israelita
si rivela nascondendosi in una nube,
si accede attraverso la memoria. Ma
quando la poesia scava nell’assenza
è afasia o follia, senza mani a trattenere
i capelli di cenere di Sulamith,
senza terra dove coltivare la rosa
bianca,
invece tu Martin taci anche delle cesoie
per costruirti il recinto elettrico del silenzio.
Paul Celan
IV. BOMB
Quando
quel mio connazionale Fermi,
nuovo Prometeo, pensò la rosa dell’atomo,
la pensò in forma di fungo e in lingua inglese
e quando sbocciò nel deserto dell’Arizona
l’algoritmo fu confermato in tutta
la sua folgorante verità trinitaria:
rosso-padre dell’esplosione
giallo-figlio del lampo
spirito-bianco
di lutto.
Gli dissero che la terra
dell’aiuola zen di un qualche
giardino arido giapponese era la più adatta
a farla crescere vigorosa e in fretta il mese
migliore agosto un giorno qualunque
della prima decade: io ne diedi
il calligramma.
Seppellitemi
in terra straniera
nel Cimitero degli Inglesi accanto
a Shelley o disperdete le mie ceneri
al cesio presso la piramide di Gaio
Cestio: seppellitemi in Roma
il più lontano possibile
da Mary.
Gregory Corso
V. La memoria è come il mare
Non ero poeta ancora,
ma uomo quando vivo
entrai nell’inferno a cielo aperto e vivo ne uscii,
solo questo ha in comune la mia tragoedìa
con la Comedìa.
Se per salire al giardino terrestre
alla candida rosa
bisognava scendere alla Città di Hitler,
io non andai oltre il filo spinato.
L’inferno non ha nulla dei nomi mitici,
fa semplicemente Vernichtunsglager,
le cui coordinate geografiche
trovare tu puoi sulle carte di Germania,
non è luogo di ogni luce muto
se la notte lo illumina il riflettore e il bengala
e la bomba lanciata per vezzo
e il bagliore della Spandau dalle altane
e la scia delle traccianti
e il lampo della carne che sfrigola
sui fili elettrici di recinzione
e il fascio delle pile che frugano i block
e la lampada scialitica
e le fiamme senza luce dell’ustrina
e il fuoco dell’acetilene sugli avambracci…
E il giorno una fitta pioggia di cenere fredda
e greve che io ben so in quanto chimico.
Entrai nell’inferno e ne uscii vivo
e non fu chiacchierata di tre giorni
ma sordo, biennale, incontenibile,
uguale, incoercibile, corale
urlo di terrore, da corde vocali recise.
Entrai nell’inferno e ne uscii vivo
ma la psiche vi persi.
Per il debito lo qual dovea al canto XXVI
della I cantica posi ad epigrafe
della mia catabasi la poesia eponima,
pur sapendo che dopo Auschwitz
la poesia non è più possibile.
Tentavo a modo mio di rimuoverne il ricordo,
pur sapendo che il rimosso,
un correligionario lo scrisse,
ritorna come sintomo.
Sento i latrati
dei lupi e i gridi rauchi dei licantropi
giù nella strada,
risalgono la tromba delle scale…
Il rastrellamento è ricominciato.
Primo Levi