Dalle Georgiche di Virgilio: Versi per questo tempo/ Virgil’s Georgics: Lines for the Present Moment
A cura di Anna Chahoud, Carlo Franco e Charlie Kerrigan
Letture in latino di
Carlo Franco
Virgilio
Georgiche
(dal libro secondo e quarto):
aut unde iratus siluam deuexit arator
et nemora euertit multos ignaua per annos,
antiquasque domos auium cum stirpibus imis
eruit; illae altum nidis petiere relictis,
at rudis enituit impulso uomere campus. [Virgil, Georgics 2.207–211]
Felix qui potuit rerum cognoscere causas
Atque metus omnis et inexorable fatum
Subiecit pedibus strepitumque Acherontis auari:
fortunatus et ille deos qui nouit agrestis
Panaque Siluanumque senem Nymphasque sorores.
illum non populi fasces, non purpura regum
flexit et infidos agitans discordia fratres … [ 2.490–6]
Qualis populea maerens philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
obseruans nido implumis detraxit; at illa
flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
integrat, et maestis late loca questibus implet. [ 4.511–5]
ed. R. A. B. Mynors 1972, via PHI Latin
Virgilio, Georgiche (dal libro 2° e 4°)
o la terra da cui con rabbia l’aratore estirpa alberi,
e sradica boschi rimasti abbandonati da molti anni
e fin dalle radici le antiche dimore di uccelli
scalza; quelli, lasciati i nidi, raggiungono l’alto cielo,
ma brilla con la spinta del vomere il nuovo campo. [Virgilio, Georgiche, 2.207-211]
Felice chi può conoscere le leggi della natura
e così schiaccia sotto i piedi ogni paura
e il destino inesorabile e il fragore di Acheronte insaziabile:
ma fortunato anche chi conosce gli dei della campagna
e Pan, e il vecchio Silvano, e le ninfe sorelle.
Lui non piegano i fasci del popolo, o la porpora dei re
o la discordia che trascina i fratelli in lotta. [ 2. 490-6]
Come l’usignolo all’ombra del pioppo lamenta afflitto
i figli perduti, che l’aratore crudele
con l’insidia ha sottratto implumi al nido; e allora
piange nella notte, e poggiato sul ramo un canto straziante
ripete, e con tristi lamenti riempie ogni spazio intorno. [ 4, 511-5]
Omaggio a Mario Geymonat: Note a Margine

Forget-Me-Nots at Connswater Greenway, Belfast (K. Mitch Hodge, Unsplash)
In his poem for W.B. Yeats, Auden writes about what poetry can do while seemingly doing nothing at all. Teaching Virgil’s Georgics this term it seemed to me more relevant than ever, and I tried to share this with the students. The planet’s trees and animals are increasingly threatened on many different fronts, particularly across the Global South, just as they are in Virgil’s poem. Patriarchal and environmental violence still go hand-in-hand, and I’ve been thinking about how the empowerment of women around the globe is connected to sustainable ways of life. I love the imaginative leaps that Virgil brings to his image of Orpheus-as-nightingale, the way he conflates different kinds of love and loss, as Catullus had done in his 68th poem, with his image of Lesbia as Laodamia; as Virgil will do again in Aeneid 12, with his image of Juturna as a swallow darting through the halls of a rich man’s house. And then, most of all, the appreciation of the natural world with which the Georgics is shot through: citrus trees and the night sky, warm sun and sudden drenching rain. I looked for the Spring more keenly than ever this year, and noted with excitement the first evening of mild air outside my window. [Charlie Kerrigan]
Nella poesia «In Memory of W.B.Yeats», W.H.Auden scrive di ciò che la poesia può fare mentre apparentemente non fa proprio nulla. Insegnando le Georgiche di Virgilio, ciò mi è sembrato più attuale che mai e ho cercato di condividerlo con gli studenti. Gli alberi e gli animali del pianeta sono sempre più minacciati da molti fronti differenti, in particolare in tutto il Sud del mondo, proprio come lo sono nella poesia di Virgilio. La violenza patriarcale e ambientale vanno ancora di pari passo e ho pensato a come l’emancipazione delle donne in tutto il mondo sia collegata a stili di vita sostenibili. Amo i salti fantasiosi che Virgilio porta all’immagine di Orfeo come usignolo, il modo in cui fonde diversi tipi d’amore e di perdita, come Catullo aveva fatto nella poesia 68, con la sua immagine di Lesbia come Laodamia; come Virgilio farà di nuovo in Eneide 12, con la sua immagine di Giuturna come rondine che saetta attraverso le sale della casa di un uomo ricco. E poi, soprattutto, l’apprezzamento del mondo naturale che permea tutte le Georgiche: gli alberi di agrumi e il cielo notturno, il sole caldo e la pioggia improvvisa. Quest’anno ho cercato la primavera più intensamente che mai e ho notato con eccitazione la prima sera di aria mite fuori dalla mia finestra. [Charlie Kerrigan]

Tramonto sulle colline di Bologna (Ghaith Harstany, Unsplash)
Nel suo cuore immenso, Mario non disdegnava suggestioni e congiunture. Capiva il mistero della poesia e di tante altre cose. Mi è piaciuto scegliere un’antica traduzione poco nota, ad opera di un letterato della mia terra, con un cognome uguale a quello della mia mamma. Mi è piaciuto immaginare Francesco Cantuti Castelvetri (1726-1777) impegnato, nel silenzio delle colline emiliane, nell’ardua traduzione delle Georgiche, intrapresa “più per ozio di solitudine, che per voglia di compierla incominciata”—un’opera, dunque, di contemplazione volontaria e gratuita, che vide la luce su incoraggiamento degli amici in un’edizione illustrata dall’artista bolognese Sebastiano Zamboni (1749-1790). Mi è piaciuta la scelta di un verso pastorale e di una lingua meno che toscana; e mi ha colpito la chiosa del Traduttore a chi legge: “Io ho, per quanto m’ è stato possibile, procurato di tener in questo mio volgarizzamento fedeltà e poesia… ma se così non son riuscito, come ho fatto studio, me ne avrai compatimento, né mi vorrai pungere con la mordacia critica; che tu meglio di me sai quanto difficil cosa sia il tradur bene. E vivi felice”. Vivi felice. Questo ci dice anche Virgilio, della natura come della poesia: c’è sempre una rinascita. Nello stesso anno in cui usciva questa traduzione, il 1757, Papa Benedetto XIV (anch’egli bolognese) toglieva dall’Indice i libri di Galileo. Che c’entra? Nulla, o tutto. Una rinascita. [Anna Chahoud]
Ovver quel campo, donde pien di collera
L’infeconda da molti anni boscaglia
E a terra gli alber l’arator gittò,
E schiantò da radici ime le vecchie
Case a gli augei: per l’aria essi fuggirono
Lasciati i nidi; ma splendeo pel lucido
Vomere impresso il terren prima squallido. [Virgilio, Georgiche 2.207.211]
Beato ancor queo che poteo conoscere
Gli agresti Dii e Pane e Silvan vecchio
E le sorelle ninfe. Non la regia
Porpora e i fasci popolar lui mossero,
E la discordia figlia d’avarizia,
Che gl’ infidi fratelli agiti e cruccie… [2.493-6]
… Qual mesta querelasi
Filomena dov’ombra un glauco populo,
Perduti i figli, che le tolse il ruvido
Arator, non pennuti ancor veggendoli:
Essa poi s’ode per la notte gemere,
E sedente su un ramo il lamentevole
Canto rinnovellar, e di lai empiere
Dolorosi ogni loco. [4.511-5]
Da Le Georgiche di Virgilio, volgarizzate in versi endecasillabi sdruccioli da Francesco Cantuti Castelvetri, Modena 1757
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