Questo periodo tragico e confuso in cui la pandemia ci costringe ad un vivere “dentro”,
colloquiando con altri per la maggior parte “in remoto”, ha però rinnovato in molti di noi, che operano nel campo poetico, l’attenzione non soltanto verso la rilettura poetica ma anche verso la sua traduzione.
Cosa si traduce, dunque, in questo tempo di Covid? È stata questa curiosità a farmi proporre l’iniziativa ad altri poeti e poetesse che hanno assieme a me accettato questo percorso. Un tentativo di raccogliere e incrociare lo sguardo di altri e altre, lontane da noi per lingua e luogo, sul mondo in questo periodo. Un desiderio di essere assieme e assieme affrontare questo tempo complicato. L’idea di fondo non era tanto mappare quello che in libreria arrivava di tradotto ma porre noi, poeti e poetesse, che per varie ragioni ci accostiamo alla traduzione poetica (per amicizia, per amore, sintonia e, a volte, per mestiere) al centro di questo lavorio. Un’altra finestra, insomma, costruita dal basso, libera da censure o ragioni di mercato, che nel testimoniare e dare voce a mondi ed esperienze di altri e altre, mettano al primo posto l’energia vitale della parola poetica, in quanto noi stessi creatrici di essa. L’idea ha cominciato a marciare e molti materiali mi sono giunti. Il lavoro di traduzione con alcuni commenti da parte dei traduttori e traduttrici sui testi scelti, viene qui incluso e presentato nella occasione della XXV Edizione del Festival Internazionale Palabra en el Mundo. I poeti e le poetesse che mi hanno accompagnato in questa raccolta di nostre traduzioni al Tempo del Covid, sono: Alessandra Bava, Anna Maria Carpi, Lucia Cupertino, Marco Fazzini, Sebastiano Gatto, Fiorenza Mormile, Jean-Baptiste Para e Anna Maria Robustelli. A ciascuno di loro va il mio ringraziamento.
Anna Lombardo
1. Alessandra Bava traduce dall’inglese 4 testi di Susan Rich
Song at the End of the Mind
I think of you as a radio frequency—
sometimes hard to find
as I touch the illuminated dial.
But tonight you arrive
murmuring into my ear in halfsleep;
you offer a suitcase of small pleasures
and laughter that somersault across the country.
In this time of shelter in place,
we are fevered wanderers
with nothing but an open screen;
handheld devices offering luminous ellipses.
We heal the earthquaked bones
of our pasts decorating rough mouths
with new vocabularies—
no longer deferred.
As the world quiets,
I’m awake to our longings.
All that is left: to congregate
close along the shoreline
unbandaged and unadorned;
to listen to the smooth rhythm and blues
of Quarantine Radio.
This one goes out to you.
Canzone al termine della mente
Penso a te come una frequenza radio—
difficile da trovare
mentre sfioro il quadrante illuminato.
Ma stasera giungi
mormorandomi all’orecchio nel dormiveglia;
mi offri una valigia di piccoli piaceri
e risate che fanno le capriole per tutto il Paese.
In questo tempo con obbligo di stare a casa
siamo girovaghi febbricitanti
con null’altro che uno schermo ben aperto;
dispositivi portatili che offrono ellissi luminose
Guariamo le ossa terremotate
dei nostri passati decorando bocche ruvide
con nuovi vocabolari—
non più procrastinati.
Mentre il mondo si placa,
i nostri desideri mi tengono sveglia.
Tutto ciò che rimane: radunarsi
vicini lungo la battigia
sbendati e disadorni:
per ascoltare il rhythm and blues carezzevole
di Radio Quarantena.
Questa è per te.
Try to Be Done Now with Words
Away with the language of weeping,
the angel of perfection can go hang herself
and burn her lilies of ambition, too.
Try to be done now with the golden bees,
the envy of another’s sainted breathing.
Instead, embrace the outer orchard—
the well-water and scrub rose,
our terrestrial music of shave
and shower, toast and tea.
Away from the temple, forget supplicants.
Slip into this season’s must have boots.
What you want is what you have always wanted—
a blue fountain, Moroccan, with the Arabic
abjad, drink and belief. Double note of window
and world. Look past the long tendrils of line break—
forget dactyls and old apples,
the symbolic yew. No more words!
Tomorrow, you will revel in flavor and folly.
O brave mouth— and touch and scent—
send coherent messages through this body
like flares off a meteor shower.
You can become your own glass sponge—
move through this green world—
silent, astonished, undone.
Prova a smetterla con le parole
A smetterla con la lingua del pianto,
l’angelo della perfezione che vada a impiccarsi
e, pure, a incenerire i gigli dell’ambizione.
A smetterla subito con le api dorate,
di invidiare l’altrui alito di santità.
Abbraccia invece l’orto esteriore—
l’acqua del pozzo e la rosa di macchia.
la musica terrestre che ci appartiene di rasature
e docce, toast e thè.
Lontani dal tempio, dimenticate i supplici.
Infilatevi gli stivali imperdibili della stagione.
Ciò che desideri è ciò che hai sempre desiderato—
una fontana marocchina, blu, con l’abjad
arabo, bere e credere. Doppia nota di finestra
e mondo. Guarda oltre i lunghi viticci dell’interruzione di riga—
il tasso simbolico. Basta parole!
Domani farai festa con gusto e follia.
Oh, bocca impavida—e tatto e fragranza—
invia messaggi coerenti mediante questo corpo
come scie da una pioggia di meteoriti.
Puoi diventare la tua stessa spugna di vetro—
attraversa questo mondo verde—
silente, stupito, incompleto.
Shadowbox
That night the air stank, the stars obscured behind wild horses
of clouds. I walked on cobblestones on the edge of something
I could not name: new land of unalterable decisions
like a retinue of assassins coming right for me, who kept coming
in a bad dream that dissolved like a black-and-white movie, the dark
mouth enveloping the entire screen. The End. Then the aftermath
like a heroin addict waking up in the overgrowth of a river path,
no longer young. There are nights that pummel your life, chart
an alternate course unasked for and colorless—the way it was
the first time you encountered the one ready to eat out your heart—
an innocent remark—a joke about ocelots or the weeds of purple carrots.
That night I was caught in a before and after, an unsayable horror film
of half-lives as we hipswayed and grunted along the Seine.
When someone passed us, their teeth shone like those of a vampire
happy with the waste of the world. Ready to drink it in. My body
was four months pregnant, crossing over to a nightmared path
of no return. But isn’t this the truth of every moment?
To revise our lives into the I belong—to this tribe of the unreliable
narrators, luminous in our stories and in our squalor.
Menare pugni in aria
Quella notte l’aria era fetida, le stelle oscurate da cavalli selvaggi
di nuvole. Camminavo sull’acciottolato ai margini di qualcosa
a cui non sapevo dare nome: terra nuova di decisioni inalterabili come
una cerchia di assassini giunti proprio per me, che continuavano ad arrivare
in un brutto sogno in dissolvenza come un film in bianco e nero, la bocca
scura che avviluppava l’intero schermo. Fine. A seguire i postumi
come un eroinomane che si risveglia tra piante incolte su un sentiero del fiume,
non più giovane. Quelle sono notti che prendono la tua vita a pugni, tracciano
un altro corso non richiesto e privo di colore—allo stesso modo
della prima volta che hai incontrato colui che era pronto a mangiarti il cuore—
un commento innocente—una barzelletta sugli ocelot o le erbacce tra le carote viola.
Quella notte fui intrappolata in un prima e un dopo, un indicibile film horror
di vite a metà mentre agitavamo i fianchi e grugnivamo lungo la Senna.
Quando qualcuno ci superava, i loro denti brillavano come quelli di un vampiro
felice dei liquami del mondo. Pronti a berli. Il mio corpo
era incinta di quattro mesi, attraversava il sentiero da incubo
del non ritorno. Ma questo non vale per ciascun momento?
Aggiornare le nostre vite all’Appartengo—a questa tribù di narratori
inattendibili, brillanti nelle nostre storie e nel nostro squallore?
This Could Happen
If you kept walking you would eventually step out of yourself.
You would leave the bones of your body,
the bloodlines to all that you loved.
You would be free of breasts and legs, liberated
from the eyes of body admirers—
To travel this earth again like star lily or skunk flower
with the forbearance of golden bees.
If you kept walking out of yourself
you could begin again as seawater, as spindrift.
Don’t worry you’d say to yourself
you’re a virgin non-body, you’re a witness
to ten thousand new worlds.
No lungs, no heart, no breath—
Irresistible now, what might you see?
A bird’s dying shudder
or lovers knotted in a plotline of release?
You’re an example now
of nothing, a fountain of nowhere—
Ciò potrebbe accadere
Se continuassi a camminare usciresti infine da te stessa.
Lasceresti le ossa del corpo,
le linee di sangue a tutti quanti hai amato.
Ti affrancheresti dai seni e dalle gambe, ti emanciperesti
degli occhi degli ammiratori di corpi—
Viaggeresti di nuovo per questa terra come lilium o calla selvatica,
con la pazienza delle api dorate.
Se continuassi a camminare fuori da te stessa
potresti ricominciare come acqua di mare, come spruzzo.
“Non preoccuparti” diresti a te stessa,
sei un non corpo vergine, sei una testimone
di diecimila nuovi mondi.
Niente polmoni, niente cuore, niente respiro—
Irresistibile ora, cosa potresti vedere?
Il sussulto di un uccello morente
o amanti intrecciati in una trama di liberazione?
Sei un esempio di niente
adesso, una fontana di nessun luogo—
NOTE BIO SULL’AUTRICE E SULLA TRADUTTRICE
Susan Rich è una poetessa, saggista, e editor americana pluripremiata. È autrice di quattro raccolte poetiche, tra le più recenti, Cloud Pharmacy e The Alchemist’s Kitchen, e co-curatrice dell’antologia, The Strangest of Theaters, pubblicata dalla Poetry Foundation. Rich ha ricevuto premi da PEN USA e dalla Fulbright Foundation. La sua quinta raccolta, Gallery of Postcards and Maps: New and Collected Poems verrà pubblicata da Salmon Press nel 2022 e la sesta, Blue Atlas, verrà pubblicata da Red Hen Press nel 2024. http://www.poetsusanrich.com
Alessandra Bava, è una poeta e una traduttrice. Ha pubblicato sillogi poetiche in Italia e negli Stati Uniti. Ha tradotto di recente: Antologia di poesia femminile americana contemporanea e Antologia di poesia britannica contemporanea. Per la casa editrice Ensemble cura la collana, HerKind, dedicata alla poesia femminile italiana e straniera. Sta scrivendo la biografia di Jack Hirschman, poeta laureato emerito di San Francisco.
2. Anna Maria Carpi traduce dal tedesco due testi di Durs Grünbein
Di Durs Grünbein ho tradotto le prime e l’ultima delle fortunate raccolte, e la scelta di questi due testi illumina i punti chiave della sua visione del nostro mondo d’oggi, la presenza inquietante delle scoperte scientifiche e l’irrimediabile debolezza dell’essere umano travolto da una civiltà sempre più complessa: “Eccoti, ma non ci sei, non ci sei mai stato”. Rari in lui i momenti lirici che, come si sa, danno al traduttore la maggior difficoltà, chiari invece i concetti, veri brividi della mente. Ma è un vuoto e un pieno che più non si corrispondono. Che cos’è oggi il poeta, che cos’ha oggi da trasfigurare? Nulla. Si tratta che di far parlare il nulla per una minimale consolazione.
Aus einem Buch der Schwaechen
Gigantische Agenda, dieses Leben –
Das so ganz anders kam un dann doch so.
Wir sehen uns, wenn wir die Augen schließen,
In eienem Fahrstuhl, der die Jahre wie Etagen zählt.
Oft steigt einer mittendrin aus, läuft auf sich zu
Den Flur hinab, sein eigener Doppelgänger.
Die Hälfte ist Stolpern, an falsche Türen Klopfen,
Weil von außen ein Herz aufgemalt ist. Und dann –
Dies Niedersinken vor Müdigkeit, das so gut tut.
Von Tag zu Tag fällt nun ein Blütenblatt
Aus dem irren Blumenstrauß, der die Vase gestern
Beinah zum Explodieren brachte in seiner Pracht.
Blaue Hortensie, wilde Anemone, schwarze Tulpe –
Das klingt alles nach freier Improvisation:
Etüden für ein Spielzeugklavier – haltloser Vers.
Und Haltlosigkeit heißt: Wir sterben
Unmerklich, und plötzlich macht e suns Freude,
So zu leben, als ob wir unsterblich wären,
Während Schrift uns eindämmt, und jedes
Einzelne Wort ist zentral. Nun fang an,
Schreib ein Buch deiner täglichen Schwächen.
Da Zündkerzen,2017
Da un libro delle debolezze
Agenda gigantesca questa vita –
all’arrivo diversa e poi così.
Se chiudiamo gli occhi ci vediamo
su un ascensore che conta gli anni come si contano i piani.
Di tanto in tanto uno che scende e corre verso di sé
lungo l’andito, sosia di se stesso.
Per metà inciampa, bussa a porte sbagliate
perché fuori c’è dipinto un cuore. E poi –
c’è il crollo, una stanchezza che fa così bene.
Di giorno in giorno cade un petalo di fiore
dal folle mazzo che nel suo splendore ieri
fece quasi esplodere quel vaso.
Ortensia azzurra, anemone selvatico, tulipano nero –
suona tutto libera improvvisazione:
studi per un pianoforte giocattolo – un verso senza aggancio.
E senz’aggancio vuol dire: che moriamo
senza notarlo, e a un tratto ci dà gioia
vivere come se fossimo immortali,
mentre la scrittura ci argina e ogni singola parola
è centrale. Su, comincia,
scrivi un libro delle tue debolezze quotidiane.
Da Zündkerzen,2017
(Candele dell’accensione)
Quantenschaum
Nicht nur die Dinge selbst, ihre Erscheinung,
auch die Bedeutungen, die sie seit langem
angenommen haben, lassen sich wenden,
jederzeit ändern.
Schau: ein Mandelbaum
in voller Blüte, gesehen im Wintergarten
des Botanischen Gartens, ist nicht nur Topos
in einem Lied, einem Naturgedicht aus China,
sondern reine organische Materie auch.
Näher betrachtet, im extrem kleinen Maßstab,
unsichtbar für Auge und Mikroskop,
ist er ein Tanz von Blasen aus winzigsten
Teilchen in einem Abstraktum,
Raumzeit genannt von den Quantenphysikern:
wenn Blasen das Wort ist, nicht nur Metapher.
Jeder Mandelbaum ist ein Quantenschaum.
SCHIUMA DI QUANTI
Non solo le cose in sé, il come appaiono,
anche i significati che da un pezzo
hanno possono volgersi
all’irrappresentabile.
Guarda: un mandorlo
in fiore, scoperto in un angolo
del Giardino botanico, non è solo un topos
in un Lied, in una poesia d’amore,
è bensì anche pura materia organica.
Guardata da vicino, su scala minima,
invisibile all’occhio e al microscopio,
è una danza di bolle fatte di particelle da nulla
in un astratto – detto tempospazio
dalla nuova fisica, che nel tutto pone tutto
in relazioni di zero virgola nulla:
una struttura curva a quattro dimensioni.
Se la parola è bolle, è momento
e non solo metafora che in un attimo esplode.
Ogni mandorlo è una schiuma di quanti.
NOTE BIO SULL’AUTORE E SULLA TRADUTTRICE
Durs Grünbein, nato a Dresda nel 1962, vive a Berlino. Einaudi ha pubblicato tre libri di poesie : A metà partita (1999), Della neve ovvero Cartesio in Germania (2005); Strofe per dopodomani e altre poesie (2011), Schiuma di quanti (2021); e una raccolta di saggi: I bar di Atlantide (2018).
Anna Maria Carpi è milanese e vive a Milano. Ha insegnato letteratura tedesca a Ca’ Foscari di Venezia fino al 2010. Traduttrice dalla lirica tedesca, da G. Benn a D. Gruenbein. È autrice di romanzi, racconti, saggi e di 11 raccolte di poesia. L’ultima, edita da Marcosymarcos 2020, è E non si sa a chi chiedere. Sue notizie biografiche, col titolo Perché scrivo, sono contenute in “La parola e le cose” del 28 aprile 2019.
3. Lucia Cupertino traduce dallo spagnolo tre inediti di Claudia Magliano
1.
Vos no creías en dios ¿sigue siendo cierto?
no creías que algo –por encima- nos guiara.
Aun así un día fuimos a la iglesia,
pero nos cansó el sermón del párroco
nos cansó esa larga enumeración de cosas buenas
porque del otro lado estaba la culpa
y como vos pensabas que hay cosas más terribles que la muerte
salías de la iglesia llevándote las flores.
Siempre dijiste que para ser santa había primero que conocer el dolor.
La ausencia de tu padre
se te puso demasiado pronto ante los ojos
y tuviste que ver el mundo
como se ve la pulpa de un fruto que se abre en su primera caída.
Creías que dios era un poco todos los hombres
y otro poco el deseo
por eso te ibas de la iglesia con un puñado de flores.
Hay cosas más terribles que la muerte –repetías-
más terribles que dios y el sermón del párroco
más terribles que encontrar a dios en todos los hombres.
Por eso te ibas
y me llevabas contigo. Y nos metíamos
en los jardines repartiendo las flores.
A algunos les tocaba el tallo, a otros los pétalos transparentes.
Íbamos dejando un rastro de flores como una estela perfumada y dios estaba en todas partes porque también él había abandonado la iglesia. Porque también él sabía que hay cosas más terribles que la muerte.
Y entonces en los jardines las semillas levantaban la tierra y crecían árboles y frutos y los frutos caían por primera vez y se veía la pulpa.
1.
Tu non credevi in dio, è ancora così?
Non credevi che qualcosa – lassù – ci guidasse.
Ciononostante un giorno andammo in chiesa,
ma ci stancò il sermone del prete
ci stancò la lunga enumerazione di cose buone
perché dall’altra parte c’era la colpa
e visto che pensavi che esistono cose più terribili della morte
uscivi dalla chiesa portando via i fiori.
Hai sempre ribadito che per essere santa
bisognava prima conoscere il dolore.
L’assenza di tuo padre
s’impose troppo presto davanti ai tuoi occhi
e dovesti vedere il mondo
come si vede la polpa di un frutto che s’apre
alla sua prima caduta.
Credevi che dio fosse un po’ tutti gli uomini
e un altro po’ il desiderio
ecco perché andavi in chiesa con una manciata di fiori.
Esistono cose più terribili della morte – ripetevi –
più terribili di dio e del sermone del prete
più terribili che trovare dio in tutti gli uomini.
Ecco perché te ne andavi
e mi portavi con te. E ci infilavamo nei giardini a dispensare fiori.
A qualcuno spettava lo stelo, a qualcun’altro i petali trasparenti.
Ci lasciavamo alle spalle una traccia di fiori come una scia profumata e dio era ovunque perché anche lui aveva
abbandonato la chiesa. Perché anche lui sapeva che esistono cose più terribili della morte.
E allora nei giardini i semi sollevavano la terra e crescevano alberi e frutti e i frutti cadevano per la prima volta e se ne vedeva la polpa.
2.
Teníamos que juntar piedras a la orilla del río.
Las mejores eran las más delgadas y redondas. Como si fueran monedas.
El arte de hacerlas saltar sobre el agua para que formaran círculos me lo había enseñado mi padre.
Aquel verano de lluvias intermitentes lo pasamos adentro de la casa jugando a las cartas.
Nunca habíamos estado los tres juntos tantos días adentro de una habitación en la que además de dos camas había también una heladera, un fogón y una mesa.
Era como la casa de los cuentos. La misma que me leíste tantas veces antes de dormir.
El padre en la cabecera dirigiendo la partida.
La madre lavando las ollas.
La tarde en que cesó la lluvia fuimos al río. Recolectábamos piedras y caracoles. Las almejas hacían pequeños pozos en la arena y las sentíamos moverse.
Trajimos un balde con dos o tres peces que todavía estaban vivos.
Mi padre nunca supo pescar, nos lo regaló un hombre con el que tuvimos una larga conversación sobre los peligros del agua.
Por la noche no pude dormir pensando en los peces.
A la mañana mi padre preparó el café. El humo que salía de las tazas trajo el recuerdo de otras mañanas.
Después del desayuno volvimos al río para dejar los peces junto a los peces y llenarnos los bolsillos de piedras.
Las mejores son las delgadas y redondas, dijo mi padre mientras tomaba impulso y las lanzaba una tras otras hacia el centro del agua.
Los peces saltaban en el aire. Las aletas se les abrían como remos.
Al final del día todo estaba en su sitio.
El padre en la cabecera de la mesa dirigiendo la partida.
La madre lavando las ollas.
Yo puse piedra sobre piedra hasta hacer una pared. Del otro lado de la habitación, dos camas y una heladera. Como la casa de los cuentos que tantas veces me leíste antes de dormir.
2.
Ci mettemmo a raccogliere pietre sulla riva del fiume.
Le migliori erano le più sottili e rotonde. Quasi fossero monete.
L’arte di farle saltare sull’acqua per formare cerchi me l’aveva trasmessa mio padre.
Quell’estate di piogge intermittenti la trascorremmo in casa a giocare a carte.
Non eravamo mai stati tutti e tre insieme così tanti giorni in un’unica stanza in cui oltre a due letti c’erano anche un frigorifero, dei fornelli e un tavolo.
Era come la casa delle fiabe. Identica a quelle di cui mi leggevi spesso prima di dormire.
Il padre a capotavola conduceva la partita.
La madre lavava le pentole.
Il pomeriggio in cui la pioggia cessò, andammo al fiume. Raccogliemmo pietre e lumache. Le vongole formavano piccoli pozzi nella sabbia e le sentivamo muoversi.
Avevamo un secchio con due o tre pesci ancora vivi.
Mio padre non ha mai saputo pescare, ce lo regalò un uomo con cui facemmo una lunga chiacchierata sui pericoli dell’acqua.
Di notte non riuscì a dormire pensando ai pesci.
Al mattino mio padre preparò il caffè. Il vapore che sprigionavano le tazze riportava il ricordo di altre mattine.
Dopo la colazione tornammo al fiume per lasciare i pesci coi pesci e riempirci le tasche di pietre.
Le migliori sono quelle sottili e rotonde, disse mio padre mentre prendeva slancio e le lanciava una dopo l’altra verso il centro dell’acqua.
I pesci saltavano in aria. Le pinne si aprivano come remi.
Alla fine della giornata tutto tornava al suo posto.
Il padre a capotavola conduceva la partita.
La madre lavava le pentole.
Io disposi una pietra sull’altra fino a formare una parete. Dall’altra parte della stanza, due letti e un frigorifero. Come la casa delle fiabe di cui spesso mi leggevi prima di dormire.
3.
Una tarde jugábamos a ver el mar. Otra hacíamos de cuenta que
éramos repartidores de leche.
En casa había monedas viejas. Un frasco lleno de monedas antiguas oxidadas por la lluvia.
Todo era útil para nuestro invento en la pesada tarde del verano.
Una muralla separaba tu casa de la mía. Aprendimos a hablar sobre los muros.
Las voces retumbaban en el frondoso paisaje del jardín.
Los canteros donde un tiempo hubo tomates, eran puentes que unían ciudades.
Un país construido sobre la cosecha.
En otro frasco recogíamos la luz adentro de pequeños insectos.
El muro que separaba nuestras casas había sido una fortaleza. Me lo contaron una vez en que el sueño se me venía encima junto con las muñecas que se transformaban en niñas crueles al caer la noche.
Por encima del muro, hablábamos.
Eran gritos de guerra. Como una oración que se repite una y mil veces para estar a salvo.
Esa tarde en que jugábamos a ver el mar me paré sobre tu cuerpo como si fueras una barca.
Todo mi peso sobre tu espalda.
Alguien nos vio mover los remos.
La luz era un escándalo y nos cerraba los ojos.
En los muros de la calle siluetas blancas mientras alguien se perdía en un bosque.
Ese muro había sido una fortaleza.
Me lo contó mi padre cuando golpeábamos las ollas debajo de la mesa de la cocina.
Jugábamos a ver el mar y a repartir la leche. Había un frasco de monedas herrumbradas que el agua trajo hasta la orilla.
Habíamos construido un país contra los muros.
Habíamos aprendido a hablar golpeando las paredes.
3.
Un pomeriggio giocavamo a vedere il mare. Un altro facevamo finta
d’essere i fattorini del latte.
In casa c’erano vecchie monete. Un barattolo pieno di antiche monete arrugginite dalla pioggia.
Tutto tornava utile alla nostra inventiva nel pesante pomeriggio estivo.
Un muro separava la tua casa dalla mia. Imparammo a parlare sui muri.
Le voci rimbombavano nel frondoso paesaggio del giardino.
Le aiuole dove un tempo ci furono pomodori, erano ponti che univano città.
Un paese costruito sul raccolto.
In un altro barattolo raccoglievamo la luce all’interno di piccoli insetti.
Il muro che separava le nostre case era stato una fortezza. Me lo dissero una volta in cui il sonno
mi veniva addosso insieme alle bambole che si trasformavano in bimbe crudeli al calar della notte.
Sulla sommità del muro, parlavamo.
Erano grida di guerra. Come una frase che si ripete migliaia di volte per mettersi in salvo.
Quel pomeriggio in cui giocavamo a vedere il mare, mi issai sul tuo corpo quasi fossi una barca.
Tutto il mio peso sulla tua schiena.
Qualcuno ci vide muovere i remi.
La luce era clamore e ci chiudeva gli occhi.
Sui muri della strada sagome bianche mentre qualcuno si perdeva nel bosco.
Quel muro era stato una fortezza. Me lo raccontò mio padre quando sbattevamo le pentole sotto il tavolo della cucina.
Giocavamo a vedere il mare, a distribuire il latte. C’era un barattolo di monete arrugginite che l’acqua portò verso riva.
Avevamo costruito un paese contro i muri.
Avevamo imparato a parlare sbattendo le pareti.
NOTE BIO SULL’ AUTRICE E SULLA TRADUTTRICE
CLAUDIA MAGLIANO, Montevideo, 1974. È professoressa di Lettere, diplomata presso l’Instituto de Profesores Artigas (IPA). Ha pubblicato i libri: Nada (premio poesia della Asociación de Bancarios AEBU e della Casa de los Escritores del Uruguay, 2005); Res, Ático Ediciones (primo premio per la poesia edita del Ministero dell’Istruzione e della Cultura dell’Uruguay, 2012); El corazón de las ciruelas, coedizione Ático e Civiles iletrados (menzione in poesia inedita nel 2016 e menzione in poesia nel 2019 ai premi annuali del Ministero dell’Istruzione e della Cultura dell’Uruguay); Aquí habita la calma, editorial La coqueta; Lo trágico es el olvido, editorial Letras cascabeleras (menzione al concorso poetico di Letras Cascabeleras, Cáceres, Spagna, 2017). I suoi testi sono inclusi in varie pubblicazioni collettive.
LUCIA CUPERTINO (1986). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid). Vive da tempo tra l’America latina e l’Italia, attiva in progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (2014); l’antologia bilingue Non ha tetto la mia casa – No tiene techo mi casa (2016). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie tra cui Nuovi Argomenti per l’Italia e Círculo de poesía per l’ambito latinoamericano. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengalese e albanese. È curatrice e traduttrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (2016), menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec, Università di Bologna; Canodromo di Bárbara Belloc (2018) e Paese di occhi e sogni di Andrés Morales (2019). Cofondatrice della rivista onlinewww.lamacchinasognante.com.
4.Marco Fazzini traduce dal portoghese un testo di Manuel Allegre e dall’inglese testi di Douglas Livingstone
VÍRUS
O buraco de ozono está nos versos
há um rio poluído um efizema
a cidade morrendo‑se e dois terços
da humanidade fora do poema.
Há um vírus nas sílabas de Abril
um tóxico no ritmo e na palavra
há pássaros que trazem Chernobyl
e já não fala a água que falava.
Na terza rima alteração genética
há uma aranha a cantar de cotovia
de pernas para o ar Hegel e a estética.
Eis o inferno. E já não há Virgílio
para guiar‑me a um reino de harmonia.
Por isso o meu cantar é outro exílio.
VIRUS
Il buco nell’ozono sta nei versi
c’è un fiume inquinato un enfisema
la città va smorendo e i due terzi
dell’umanità è fuori dal poema.
C’è un virus nelle sillabe d’aprile
un veleno nel ritmo, nella parola
i passeri recapitano Chernobyl
e più non parla l’acqua che parlava.
Nella terza rima un’alterazione genética
c’è un ragno che canta delle allodole
e a gambe all’aria va Hegel e l’estetica.
Questo è l’inferno. E non c’è più Virgilio
a guidarmi verso un regno d’armonia.
Per questo il mio cantare è altro esilio.
Lensman
Impossible structures:
a kettle on a half-track
trundles, stops, flickers and ruptures.
Swallowing hard, bald spheres
roll like tumbled dictators
among small executioners.
Ingesting all portents,
one staggers through the dregs of
all possible environments.
*
A crystal spins and flails
proffering paralysis;
oars pulse: a boat-race paces snails.
One short flagellate sucks
and fills: its brood could sjambok
bowels into a bloody flux.
On an instant, a frond
gapes to become open jaws:
knives welcome to a long beyond.
*
Worlds thin: the molten cores
racked up, refocused, refract
the slaughter of bleak buried wars.
Here and there, small pockets
of Greeks defend a corner
from a butchering Rome’s cohorts.
This jejune universe
looks bent – perhaps such advents
rule the unknown planets, or worse.
Al microscopio
Strutture impossibili:
un bollitore sopra un semi-cingolato
ruzzola, s’arresta, freme e si rompe.
Inghiottendo a fatica, sfere pelate
rotolano come dittatori decaduti
tra minuscoli carnefici.
Ingerendo ogni portento,
si barcolla tra la feccia di
ogni ambiente possibile.
*
Un cristallo gira e sferza
profferendo paralisi;
i remi pulsano: un regata va a passo da lumaca.
Un corto protozoo flagellato succhia
e si sazia: il suo branco potrebbe percuotere
con lo sjambok le budella in un flusso sanguinante.
Per un istante, una fronda
boccheggia e si trasforma in fauci spalancate:
coltelli a disposizione di un oltre distante.
*
I mondi si assottigliano: essenze fuse
e angariate, rifocalizzate, rifrangono
il massacro di guerre desolate e sommerse.
Qua e là gruppi minuscoli
di Greci difendono un angolo
da una schiera romana allo scempio.
Questo universo trito
sembra storto – forse simili avventi
regolano i pianeti sconosciuti, o peggio.
An Evolutionary Nod to God, Station 4
Perhaps creationists are nearly right:
an enigmatic principle formed cells
– evolving scientific law by night –
informed with more ahead than heavens or hells.
Irradiating slime-flecks day by day,
it watched (with love?) rash chromosomal loops
unwind, reform, transform their DNA
to struggle up from primed primeval soups.
Unstrung mutations – random nightmares – made
headstrong mistakes. Selection took its toll:
free-will incurs some debts. The debts get paid.
still, it evades the puppet-master’s role.
Far from its image, vestiges in me
recall a time I once breathed in its sea.
Un assenso evolutivo a Dio
Forse hanno quasi ragione i creazionisti:
ha formato le cellule un principio enigmatico
– evolvendo nottetempo una legge da scientisti –
informate da ciò che ha molto più dell’infernale, o paradisiaco.
Ha guardato (con amore?) incaute spire di DNA,
mentre irradiavano, giorno dopo giorno, scaglie di fanghiglia,
dipanarsi, riformare, trasformare la loro eredità,
emergere da quella satolla, primigenia brodaglia.
Stravolte mutazioni – incubi accidentali – hanno commesso
caparbi errori. La selezione incamera il suo tributo:
il libero arbitrio contrae debiti. Tutto viene poi riscosso.
Eppure, tuttora elude il ruolo del burattinaio provetto.
Lontano da quell’immagine, vestigia in me a ricordare
un tempo quando, per una volta, io ci respirai in quel mare.
NOTE BIO SUGLI AUTORI E SUL TRADUTTORE
Manuel Alegre è nato ad Agueda nel 1936. Ha frequentato la Facoltà di Giurisprudenza a Coimbra, dove ha partecipato alle lotte contro la dittatura di Salazar. Inviato in Angola come ufficiale, nel 1962 ha diretto un tentativo di rivolta contro la guerra coloniale, andando a processo. Tornato in Portogallo nel 1964, per ragioni politiche si è esiliato prima in Francia (a Parigi), e poi in Algeria, dove ha proseguito la sua lotta antifascista. Rientrato in patria nel 1974, dopo la rivoluzione del 25 aprile, è stato eletto deputato del Partito socialista e vicepresidente dell’Assemblea da República.
È un fine critico letterario, un romanziere, ma soprattutto un insigne poeta che già con il suo libro d’esordio, nel 1965, ha ottenuto unanime consenso di pubblico e di critica. Vari i suoi premi lungo una carriera lunghissima, tra cui quello dell’Associazione portoghese degli scrittori, quello Internazionale dei critici letterari, e il prestigioso Prémio Pessoa e Prémio Vida Literária per l’intera sua opera. Dal 1965 ad oggi ha scritto vari volumi di critica letteraria, tra i quali il più recente è Arte di navigare (2002), quattro romanzi, e oltre venti volumi di poesia, tra cui: Opera poetica (1999), Il libro del portoghese errante (2001), Dialoghi (2001), Doze Naus (2007), Nada está escrito (2012), e i recenti 55 Poemas (2019) e Os Sonetos (2019). In italiano sono disponibili: L’uomo del paese azzurro (1999); le poesie contenute in Inchiostro nero che danza sulla carta: antologia di poesia portoghese contemporanea (2002), a cura di Giulia Lanciani; e le sillogi antologiche Ci sarà un altro mare (2011) e Quartiere occidentale (2015). Il testo è tratto dal libro: Sonetos do obscuro quê (1993).
Douglas Livingstone nacque nel 1932 a Kuala Lumpur, in Malesia, da genitori di origine scozzese. Arrivato in Africa all’età di dieci anni, visse a Durban, in Sudafrica, dal 1964 fino al 1996, l’anno della sua morte. Benvoluto e ammirato sia dagli scrittori bianchi sia da quelli neri, che aiutò spesso in vario modo a pubblicare in riviste e volumi, fu per diversi decenni il poeta bianco più rappresentativo della nuova scrittura del dopoguerra. Livingstone già nel 1964, quando pubblicò il volume Sjambok, divenne figura di assoluto prestigio anche nel Regno Unito dove pubblicava e collaborava per grandi case editrici o riviste letterarie come il London Magazine. Microbiologo di professione, si occupò per oltre 30 anni di inquinamento marino lungo la costa dell’Oceano Indiano. La sua ultima silloge, A Littoral Zone (1992), fu volume che combinava le sue competenze scientifiche con quelle poetiche, in una singolare indagine sul significato e il potere del cosmo, trascendendo la violenza e la corruzione di un’umanità sull’orlo del collasso, incapace di imparare dai suoi propri errori. In italiano sono disponibili: Loving. Poesie scelte e altri scritti (2009), e Son to the Ocean, una silloge di saggi critici sulla sua opera, entrambi a cura di Marco Fazzini.
MARCO FAZZINI, docente all’Università di Cà Foscari, Venezia, critico, traduttore ed editore di una collana per la casa editrice Edizioni del Bradipo. Ha pubblicato articoli e diversi libri sulle letterature postcoloniali e ha tradotto alcuni dei principali poeti contemporanei di lingua inglese. È direttore artistico del festival di poesia e musica “Poetry Vicenza”.
5. Sebastiano Gatto traduce dallo spagnolo tre testi di Raúl Zurita
LAS CIUDADES DE AGUA (1)
A Paulina Wendt
Un hombre que agoniza te ha soñado, un hombre
que agoniza te ha seguido. Uno que quiso morir
contigo cuando tú quisiste morir.
Allí está mi cuerpo estrellado contra los arrecifes
cuando ahogándome te vi emerger y eternamente
cerca y eternamente lejos eras tú la inalcanzable
playa.
Todo en ti es doloroso.
Te saludo entonces y saludo a lo eterno que vive
en la derrota, a lo irremediablemente destruido,
al infinito que se levanta desde los naufragios,
porque si agua fueron nuestras vidas, piedras
fueron las desgracias.
No soy yo, son mis patrias las que te hablan: el
sonido de océano que describo, las estrellas de
la recortada noche.
Iluminada de la noche tu cara sube cubriendo
el amanecer. Abres los párpados, entre ellos
millones de hombres dejan el sueño, toman sus
autobuses, salen,
las ciudades de agua en tus ojos
LE CITTÀ D’ACQUA (1)
A Paulina Wendt
Un uomo in agonia ti ha sognato, un uomo
in agonia ti ha seguito. Uno che volle morire
quando tu volesti morire.
Lì c’è il mio corpo schiantato contro gli scogli
quando annegando ti vidi emergere ed eternamente
vicina ed eternamente lontana eri tu irraggiungibile
spiaggia.
Tutto in te è doloroso.
Ti saluto allora e saluto l’eterno che vive
nella sconfitta, l’iirimediabilmente distrutto,
l’infinito che si alza dai naufragi,
perché se acqua furono le nostre vite, pietre
furono le disgrazie.
Non sono io, sono le mie patrie che ti parlano: il
suono di oceano che descrivo, le stelle della
frastagliata notte.
Illuminato dalla notte il tuo volto sale coprendo
il mattino. Apri le palpebre, tra loro
milioni di uomini lasciano il sogno, prendono i loro
autobus, escono,
le città d’acqua nei tuoi occhi
LAS CIUDADES DE AGUA (2)
A Paulina Wendt
Todo en ti está vivo y está muerto: el fulgor del
pasto en la aurora y el hilo de voz creciendo en
el diluvio, el feroz amanecer y la mansedumbre,
el grito y la piedra.
Todo mi sueño se levanta desde las piedras y te
mira.
Toda mi sed te mira, el hambre, el ansia infinita
de mi corazón.
Te miro también en el viento. En las nieves de
la cordillera sudamericana.
Allí está la calle en que esperé que amanecieras,
la noche póstuma, el país muerto en el que no
morimos. Allí están todas las heridas y golpes
cuando emergiendo del destrozado sueño volví
hacia ti los ojos y vi las desmesuradas estrellas
flotando en el cielo.
Tu cara ahora flota en el cielo, detrás corre un
río. Hay un hombre muy viejo.
Hay un hombre muy viejo en el medio del río
y tú lo miras
las ciudades de agua en tus ojos
LE CITTÀ D’ACQUA (2)
A Paulina Wendt
Tutto in te è vivo ed è morto: il fulgore
dell’erba nell’aurora e il filo di voce che cresce nel
diluvio, il feroce mattino e la mansuetudine,
il grido e la pietra.
Tutto il mio sogno si alza dalle pietre e ti
guarda.
Tutta la mia sete ti guarda, la fame, l’ansia infinita
del mio cuore.
Ti guardo anche nel vento. Nelle nevi della
cordigliera sudamericana.
Lì c’è la strada in cui aspettai che sorgessi,
la notte postuma, il paese morto in cui non
morimmo. Lì sono tutte le ferite e i colpi
quando emergendo dal sogno distrutto voltai
verso te gli occhi e vidi le smisurate stelle
galleggiare nel cielo.
Il tuo viso ora galleggia nel cielo, dietro scorre un
fiume. C’è un uomo molto vecchio.
C’è un uomo molto vecchio in mezzo al fiume
e tu lo guardi
le città d’acqua nei tuoi occhi
GUÁRDAME EN TI
Entonces guÁrdame en ti
en los torrentes más secretos que tus ríos levantan
y cuando ya de nosotros
solo quede algo como una orilla
tenme también en ti
guárdame en ti como la interrogación de las aguas
que se marchan
y luego, cuando las grandes aves se derrumben
y las nubes nos indiquen
que se nos fue laida entre los dedos
guárdame todavía en ti
tenme en ti, en la brizna de aire que aún ocupe tu voz
dura y remota
como los cauces glaciares en que la primavera deciende
CUSTODISCIMI IN TE
Allora custodiscimi in te
nei torrenti più segreti che sollevano i tuoi fiumi
e quando ormai di noi
non resti che una riva
tienimi anche in te
custodiscimi in te come l’interrogazione delle acque
che se ne vanno
e poi, quando i grandi uccelli crollino
e le nuvole ci indichino
che laida ci sfuggì tra le dita
custodiscimi ancora in te
tienimi in te, nel filo d’aria che ancora occupi la tua voce
dura e remota
come i canali glaciali in cui la primavera discende
NOTE BIO SULL’AUTORE E SUL TRADUTTORE
Raúl Zurita, poeta noto in tutto il mondo è nato in Cile nel 1950; dopo il golpe dell’11 settembre 1973 fu arrestato, torturato e detenuto a lungo. Tra il 1979 e il 1994 scrive la Trilogia Purgatorio (1979), Anteparaiso (1982) e La vida nueva (1994). Nel 1993 scrive il suo celebre verso Ni pena ni miedo nel deserto di Atacama, visibile dall’alto e nel 2000 pubblica Poemas militantes e Sobre el amor y el sufrimiento; lo stesso anno riceve il Premio nazionale di Letteratura del Cile. Nel 2016 gli viene conferito il Premio Alberto Dubito International alla carriera.
Sebastiano Gatto, è nato a Mestre nel 1975. Vive a Venezia. È scrittore e traduttore. Ha pubblicato i libri di poesia Padre Vostro (Campanotto, 2000), Horse Category (Il Ponte del sale, 2009), Strada lavoro (Nervi, 2015) e Voci dal fondo (LietoColle – Pordenonelegge, 2015).
Per Amos Edizioni ha curato e tradotto Memoria della neve e Poesie complete di Julio Llamazares, Abel Sánchez di Miguel de Unamuno, Volverás a Región di Juan Benet. Per Il Ponte del sale, assieme a Ianus Pravo, Peter Pan non è che un nome di Leopoldo María Panero. A breve la pubblicazione del romanzo Il funerale di Genarín di Julio Llamazares da lui curato e tradotto. Per Amos edizioni ha pubblicato due romanzi brevi: Le sette biciclette di César (2012) e Blues delle zucche (2015).
6. Anna Lombardo traduce dall’inglese Kristin Knox
Il testo che inizialmente mi ha spinto a intraprendere tutto ciò è l’opera poetica prima della scrittrice ed editor Kristin Knox: How do you cross the autumn mountain alone/ Come attraversi la montagna d’autunno da sola. Il libricino, (poco più di una ventina di pagine accompagnate da foto fatte dall’autrice stessa nel Central Park di New York, rigorosamente in bianco e nero), l’avevo ricevuto circa un anno e mezzo fa. L’avevo letto e poi era lì rimasto. In questi ultimi mesi, il suo titolo, soprattutto, mi risuonava continuamente in mente e piano piano ha cominciato ad agire come magnete e a farmi sentire l’urgenza di condividere quel suo domandarsi intimo con altre persone. L’ho quindi tradotto e successivamente è stato pubblicato nel sito di Carte sensibili, dove avevo lanciato l’iniziativa della Traduzione al Tempo del Covid. Solo la lunghezza del testo, (presentata qui nella sua versione originale e in quella da me tradotta), mi spinge a poche righe necessarie di accompagnamento.
Il fascino di storie vissute, raccontate a metà che si intrecciano tra ombre e luci, nostalgia e fruscii di ricordi tenuti assieme con vivide pennellate da stampe giapponesi. Un fluttuare tra speranza e sconforto, amore e cura che ruotano attorno ad aspettative e sogni, con l’occhio aperto al significato attuale di pietas. Una prosa poetica a tratti criptica, nel suo trattenere quel pudico non detto sul dolore della perdita e della mancanza, rendono questo lavoro di Kristin Knox -che qui assume il nome di E. Tanaka in omaggio alle sue radici giapponesi – struggente e al contempo universale nella domanda posta nel titolo: Come attraversi la montagna d’autunno da sola?
Un interrogarsi in apparenza intimo ma, che, nello sconforto della pandemia attuale, interroga noi tutti. A leggere poi tra le righe, ci si rende conto che questa montagna ‘sacra’– la vita stessa – è stata violata e tradita nel corso dei tempi; da essa ci si è allontanati e la condanna che ci si presenta può dirigere verso la voragine di una solitudine inquieta. Come uscirne? Come vedere oltre e raggiugere una saggezza ed una umanità che appare smarrita è, infine, la carsica ricerca che muove, a mio avviso, questo percorso poetico della poetessa che da circa due anni vive in mezzo ai boschi vicino Woodstock. Nel guardarsi dentro, nel condividere la storia e le storie che ci attraversano, si intravede quel percorso urgente da intraprendere affinché anche la memoria si faccia linfa preziosa da non disperdere ma da tenere presente per un possibile cambiamento sia intimo sia collettivo.
Le atmosfere e soprattutto le immagini che qui Kristin Knox intreccia sono diverse rispetto alla sua scrittura in prosa (è autrice di vari racconti brevi, uno, dal titolo Berlino, è stato da me tradotto e pubblicato nel sito italiano della Macchina Sognante di Pina Piccolo). Come dichiara nella nota finale al suo poema, infatti, “ il titolo e l’anima” di questo suo ultimo lavoro, gli sono stati ispirati dalla più antica collezione di poemi waka giapponesi del nono secolo sopravvissuta, l’antologia Manyoshu o Collection of Ten Thousand Leaves, (Raccolta delle Diecimila Foglie).
.
How do you cross the autumn mountain alone/ Come attraversi la montagna d’autunno da sola.
1
Summer dies amid the mourning stars and shrillings of
cicadas. Now the wild geese ride the autumn wind,
screaming.
The doe roams the boxwood, calling for her lover. Only
Garden crickets answer her, and the evening moon that
rises before the day is over.
.
L’estate muore tra stelle in lutto e acuti di
cicale. Ora le oche selvatiche cavalcano il vento d’autunno,
urlando.
La cerva si aggira per il bosso, chiamando l’amato. Solo
i grilli nel giardino le rispondono e la luna della sera che
sorge prima che il giorno finisca.
2
The young moon is reminiscent of eyebrow of you
whom I have seen just once. Hand in hand, we reached
the Land Everlasting where the rain beats are ceaseless.
Lately, I have not heard them.
.
La giovane luna di te ricorda il sopracciglio
che solo una volta avevo visto. Mano nella mano, raggiungemmo
la Terra Eterna dove i battiti della pioggia sono incessanti.
Negli ultimi tempi, non li ho sentiti.
.
3
Have you hidden yourself in Mirror Mountain with the
rock-doors shut? However long I wait, you never
return.
I bear our memory for the ages.
.
Ti sei nascosta nella Montagna Specchio con le
porte di roccia sigillate? Per quanto io attenda, tu mai più
ritornerai.
Avrò la nostra memoria per l’eternità.
.
4
The man from Unapi wears beads strung from teeth. At
our first meeting, we look at crescent October and
wonder, ‘Who are we when we go up to the sky?’
They marry us among the rocks in a salt-licked vale. Two
pillows lie where we used to sleep together. Shadow and
air rise from the hot surface of the sheets.
Behind our house there are cries and clamors, and a kind
of elm that is only beautiful in September.
.
L’uomo di Unapi indossa perline infilate coi denti. Al
nostro primo incontro, guardiamo alla luna crescente d’Ottobre
chiedendoci, ‘ Chi siamo quando saliamo in cielo?’
Ci sposano tra le rocce in una valle leccata dal sale. Due
cuscini giacciono dove una volta dormivano assieme. Ombra e
aria salgono dalla superficie calda delle lenzuola.
Dietro casa nostra ci sono grida e clamori e una specie
di olmo che è bello solo a settembre.
.
5
Vegetables thrive in my womb, cultivated and wild –
yam, bracken shoots, seaweeds of various kinds, and
celery. But the root of the mountain demands whale-meat
and will not let me go. His caves must be cold and
hungry.
.
Le verdure prosperano nel mio grembo, curato e selvaggio–
igname, germogli di felci, alghe di vario genere, e
sedano. Ma la radice della montagna pretende carne di balena
e non mi lascia andare. Le sue caverne devono essere fredde e
affamate.
.
6
Once the cormorant told my sister when she went to the
market to buy bream, ‘your story is told by another teller.’
I wait these many years. But when the red azaleas glow by
the road, I know I must go on my medicine-hint. Even
though the story always ends with the self-destruction of
the poor, helpless girl!
.
Una volta il cormorano disse a mia sorella quando andò al
mercato a comprare l’orata, ‘la tua storia è raccontata da un altro narratore’.
Aspetto questi molti anni. Ma quando le rosse azalee brillano lungo
la strada, so che devo continuare a cercare la mia medicina. Anche
se la storia finisce sempre con l’autodistruzione della
povera ragazza indifesa!
.
7
I put your rice in the bowl, pull on mulberry-cloths, and
walk through the swaying bamboo blinds of our door. I
stand outside by the gate without saying ‘I’m sorry’
or ‘goodbye.
.
Metto il tuo riso nella ciotola, infilo panni di gelso, e
attraverso le persiane di bambù ondeggianti della nostra porta. Io
sto fuori dal cancello senza dire ‘mi dispiace’
o ‘arrivederci’.
.
8
Where the mountains overlap there is a lake. The tide
swells up to the hem of my elegant skirt. If some samurai
comes to cut the net, would my husband be longing for me
in the dark?
Now, I cross the morning river I have never crossed in my
life before. I go to the banks where catalpas grow and
unbury a pygmy child’s bow.
.
Dove le montagne si sovrappongono c’è un lago. La marea
si gonfia fino all’orlo della mia gonna elegante. Se qualche samurai
venisse a tagliare la rete, mio marito avrebbe desiderio
di me nell’oscurità?
Ora, attraverso il fiume mattutino mai attraversato prima
in vita mia. Vado sulle rive dove crescono i catalpa e
dissotterro l’arco di un bimbo pigmeo.
.
9
My sleeves are drenched with river fog. Tough I treat
the tiger with intimate knowledge, the moon denies the
reed her song. ‘Father, I try to listen, but I cannot hear
the mango lullaby.’
Is it because the Izammi mountains are so high that I can
no longer see Yamato?
Or is it because I came too far from my country?
.
Le mie maniche fradice della nebbia del fiume. Sebbene tratto
la tigre con profonda conoscenza, la luna nega alla
canna il suo canto. ‘Padre, cerco di ascoltare, ma non riesco a sentire
la ninna nanna del mango.’
È perché le montagne Izami sono così alte che non riesco
più a vedere Yamato?
O è perché troppo mi sono allontanata dal mio paese?
.
10
‘Look at me, Mother!’ the wind demands of the glacier
like a fat, spoiled child. A glory of spring flowers. The
ruddy sun shines. The fair moon sails. The tomb of the
prince, built on the hill, survives still. It craves the eyes of
young girls. I count them on my fingers.
I can only call your name and wave my sleeve. I have
nothing to give; I pick up our child, clasp her in my arms,
and ask the gods to remember us until the end of the time.
.
‘Guardami mamma!’ il vento pretende del ghiacciaio
come bimbo grasso e viziato. Una gloria di fiori primaverili. Il
sole rossastro splende. La bella luna naviga. La tomba del
principe, costruita sulla collina, sopravvive ancora. Brama gli occhi di
giovani ragazze. Li conto sulle mie dita.
Io posso solo chiamare il tuo nome e agitare la mia manica. Non ho
niente da dare; prendo in braccio nostra figlia, la stringo tra le braccia,
e chiedo agli dei di ricordarsi di noi fino alla fine dei tempi.
.
11
‘The dead person she abandoned may have been
reincarnated -’
‘He seeks your grave each morn.’
Do people say that of me too?
.
‘La persona morta che lei abbandonò potrebbe
essersi reincarnata – ’
‘Lui cerca la tua tomba ogni mattina.’
La gente dice questo anche di me?
.
12
Tonight, the autumn moon shines on the mountain. The
very moon that shone a year ago. The moon-god
persuaded me to look into the mirror and perceive the
face of the mountain.
‘What do you see?’ he asks.
‘Winter’s cold,’ I answer. ‘And a sad child has hung out
a piece of cloth.’
.
Stanotte, la luna d’autunno splende sulla montagna. La
stessa luna che brillava un anno fa. La dea-luna
mi convince a guardarmi allo specchio e scorgere il
volto della montagna.
‘Cosa vedi?’ lui chiede.
‘ L’inverno è vicino,’ rispondo. ‘E una bimba triste ha appeso
un pezzo di stoffa.’
NOTE BIO SULL’AUTRICE
K. E. Knox vive a New York, NY, dove lavora come redattrice accademica e si sta formando per diventare cappellano buddista. In precedenza ha lavorato come giornalista di moda a Londra e ha pubblicato due libri di saggistica.
7. Fiorenza Mormile traduce due testi di Hayden Carruth
“The Fat Lady” appartiene alla prima raccolta di Hayden Carruth, The Crow and the Heart (1959). Ci mostra uno spaccato della provincia americana, nel Connecticut di cui il poeta era originario. Un mondo impietoso e ancora arcaico, dove un’obesa diventa fenomeno da baraccone, dapprima itinerante e poi stanziale, troneggiante e bene in vista dall’enorme vetrata che contribuirà alla sua tragica fine. È un testo indicativo della forte empatia del poeta, della sua attenzione verso i freak, gli emarginati a vario titolo in cui inscriveva anche se stesso dopo il crollo nervoso che lo aveva costretto ad abbandonare il lavoro di redattore capo di “Poetry” a Chicago. Carruth la chiama «signora», usandole rispetto fin dal titolo, pur accomunando il suo tragico rogo a quello della strega della filastrocca in esergo, con un certo pessimismo sulle possibilità di riscatto dei diversi. Risale alle cause di quel lievitare incontrollato con affettuosa comprensione verso il desiderio inappagato di amore, e ne proietta l’esuberanza fisica nella lussureggiante varietà di lessico e di registri. Nel disperato atteggiamento di sfida di lei c’è carattere, determinazione, ma si avverte anche una forma di dipendenza, un rapporto tossico con gli sguardi del suo «pubblico», quei «bruti» che costituiscono la sua unica forma di relazione col mondo.
Molte le analogie con il confinamento pandemico: l’isolamento, l’immobilismo obbligato, la spinta compensatoria verso il cibo, l’alternarsi di letture e di resa alla tirannia dello schermo caratterizzano anche la realtà del lockdown.
“The Woman’s Genitals” da Contra Mortem (1966) è invece un entusiastico inno alla femminilità, composto nella forma originale del paraghraph in un più sereno stato emotivo.Una sapiente e delicata celebrazione dell’origine del mondo che ho sceltoper risollevarci e sperare nel futuro.
In “The Fat Lady” ho lasciato non tradotto “Hink”, che è incipit dell’esergo e anche grido finale della protagonista per la qualità onomatopeica e simbolica di legame tra le due sorti tragiche. Non potendo ricostituire l’intera serie di assonanze “hink/ mink/ stinks” ho preferito sostituire a “mink” (visone) “cocuzza” anche per la valenza ‘magica’ della zucca e concedermi qualche altra libertà per salvaguardare il ritmo giocoso della filastrocca.
THE FAT LADY
Hink! Mink! The old witch stinks,
The fat begins to fry!
Nobody’s home but Jumping Joan,
Jumping Joan and I. -OLD RHYME
“A lovely house it was. We all thought so,
Anyway, after we got used to it. All
That redwood and that queer roof – modern, you know.
And the window! Enormous, like a wall – ”
Which burst like spindrift inward when the flames
Were most intense, showering the dear creature
With foamy glass and giving the fervent neighbors,
Who stood like choristers on the lawn,
An even better view.
“She’d call us dirty names,
All of us, but we didn’t mind. She was mad.
Why, right at the end she laughed out fit to burst.
And sometimes she’d just lean back and yawn
Like an old mare and go to sleep.
She said it took a might of resting – and eating –
To keep the life in such a heap.
Four hundred fifty pounds! That’s three of me,
And she no higher than a pasture gate.
We told her she ought never be alone;
We told her, but she always knew it all,
With her fancy books and that funny mechanical doll –
All gone now. It’s kind of sad.”
Saddest because she cackled at the end,
Mad and mortal in a ring of fire,
And still, O Lord, house to the girlish lust
For heroes who could never part the flames.
Saddest because I think of that old lust,
Her flesh that flowered like any other, slowly,
Assembling hues and textures through the seasons,
A trick of eye and lip, the shoulder’s lift
Above the proud young breast; her moment came,
The moment of perfect form, growth’s triumph, life
Verging . . . oh, verging on all conjectured joys,
Expectancy, consent. Only a season,
An April, a poise, three stepping-stones where laughter
Weaves quietly beneath the willow trees –
For her not even this. Like rain her shock
Pelted upon her ceaselessly, and growth
Went on and on, the moment lost in dread,
Horror of the flesh, mounting, mounting,
Flesh whose rolls and waves encompassed her,
Crushed her, sank on her tender heart, like heat
That swarms and lies on equatorial towns.
And speech became a gasp, all beauty gone,
As fat fish gasp in puddles when the tide
Falls fast down the beach.
“You would have thought
They’d make these fancy houses fireproof
At least. Hell, she burned like tinder,
Everything, walls and roof,
Except the tiles and that glass ball.
You ‘ll find them somewhere there among the cinders.”
Burning, burning, she faced the centuries,
A metabolic mound that time alone,
The way of flames and ashes, could reduce.
To move was torture, why then should she move?
Her moment fled, or rather smothered. She
Attuned her mind to practical affairs.
She was a monster. All right, let them pay;
And twice a day she had them hoist her up
Against the gaze that washed her like a sea,
While she stared back like rock, a promontory
Eating chocolates. The barker cried his creed, “
You won’t believe it, she’s impossible,”
And she dreamed hexes on that facelike sea.
From stand to stand she rode the baggage car.
Yet more than once she did not sleep alone;
Temptation hung like smoke among the smells
Of gin and elephants, as black-nailed hands
Flickered and passed the bottle round and round.
She was astonished when her lovers came,
Stealthy and drunk, dared to that mammoth bed.
In the skittery dawn they fled like mice. Not one
Was ever seen again.
“What can you do
With such a crazy dame?
She sat there every day.
She knew, she knew.”
Between the joys of staring down the sea
(“My audience, the brutes – all of them”)
She cultivated a cold mind and ate,
Ate everything in sight, her barker said.
She took a mechanical turn, and bought a toy,
A doll on the end of a string, whose antics soothed
Her massive immobility. She jerked
The string with one fat finger while she read
Tracts of the star-gazers – interpretations,
Systems, prophecies. “Nonsense,” she said,
And dropped the books about her on the floor.
And yet she bought a lovely crystal ball.
Mostly she ate, a rhythmic munch and crunch,
And felt the love flow from her jaws like blood.
Round and huge and decked with tarnished beads
That fell like chains from her neck’s greased machine,
She sat, a queen, a tawdry giantess,
Fruitful, unloved, obscene, the essential mother
Who bored through pain’s interminable years
Without a yell and cursed us all and gave
Her life to be the image of our love,
Her utmost curse; we wander in our love,
Disconsolate and cowardly and free,
Kicking the rusty coins above her grave.
“That crystal ball’s what finally done her in.”
She’d no more quit her triumph than her pain,
And when she tired of baggage cars, she built
A house around a window and a chair,
A window large enough to frame the brutes,
A chair . . . well, large enough for her. And still
They carne to stare, furtively, beyond
The lawn, to see the monster, though she charged
Only the quota of her cold contempt.
Enthroned, immobile, she gave them eye for eye
Through the wide glass. The year turned, and the sun
Slanted each day closer to her chair,
And bored at last into that crystal ball,
A smoking beam that fell upon a page
Of one of the open books around her chair.
The paper blackened, and the flame at first
Was pale, almost invisible, but it leapt
From page to page, yellowing, dancing, dancing,
Like the doll at the end of the string, and fast flew round
The chair in a raucous ring, a ring of flames,
All gay and hot in a topsy world, a cheer
And a whirl, and “Hink!” she squealed, and laughed and laughed
Till she thought she’d die. “I’ve got you now, you brutes.”
She cried, and the tears streamed down and quickly dried.
The one world I knew how to love had died.
Da Hayden Carruth, “The Crow and the Heart ”in Collected Shorter Poems 1946-1991, Copper Canyon Press, Port Townsend, Washington 98368. Copyright© Joe-Anne McLaughlin, 2008. Il testo è qui riprodotto su gentile autorizzazione di Joe-Anne McLaughlin e di Copper Canyon Press.
LA SIGNORA GRASSA
Hink!Cucuzza! La vecchia strega puzza,
il grasso frigge, alé!
In casa non c’è nessuno, tranne Gianna-che-zompa,
Gianna-che-zompa e me. -VECCHIA FILASTROCCA
“Era carina la casa. Lo pensavamo tutti,
almeno dopo averci fatto l’abitudine. Tutta
quella sequoia e quel tetto bislacco – moderno, sai.
E la finestra! Enorme, come una parete –”
Che implose in un’ondata vaporosa al picco
delle fiamme, spruzzando la cara creatura
di una schiuma di vetri e dando ai ferventi vicini,
schierati come coristi sul prato,
una vista anche migliore.
“Prendeva a parolacce
tutti noi, ma non ci offendevamo. Era fuori di testa.
Beh, proprio alla fine rideva a crepapelle.
E qualche volta si buttava all’indietro e sbadigliava
come una vecchia cavalla e si metteva a dormire.
Diceva di doversi sforzare di mangiare e riposare
per restare viva in quell’ammasso.
Più di duecento chili! Cioè tre volte me,
e lei non più alta di una staccionata.
Le dicevamo che non doveva mai restare sola,
glielo dicevamo, ma lei sapeva sempre tutto,
coi suoi libri strambi e quella buffa bambola meccanica –
Tutto finito, ormai. Che tristezza”.
Davvero triste perché lei ridacchiava alla fine,
fuori di testa e destinata a morire in un anello di fuoco,
e ancora, O Signore, albergo al desiderio di ragazza
per eroi che mai avrebbero saputo dividere le fiamme.
Davvero triste perché penso a quel vecchio desiderio,
la sua carne che fioriva come ogni altra, lentamente,
assemblando trame e sfumature lungo le stagioni,
un vezzo dell’occhio e del labbro, il sollevarsi della spalla
sul giovane seno orgoglioso; venne il suo momento,
il momento della forma perfetta, il trionfo della crescita,
l’approssimarsi della vita…oh l’approssimarsi a tutte le gioie immaginate,
aspettativa, consenso. Una sola stagione,
un Aprile, un equilibrio, tre pietre su un guado dove le risa
serpeggiano quiete sotto i salici–
Per lei nemmeno questo. Come pioggia lo shock
le si riversò addosso senza tregua, e la crescita
andò sempre più avanti, il momento perduto nel terrore,
orrore della carne, che montava, montava,
carne i cui rotoli e onde l’abbracciavano,
la schiacciavano, affondavano sul suo tenero cuore, come la calura
che sciama e staziona sulle città equatoriali.
E il parlare divenne affannoso, perduta ogni bellezza,
come un pesce grasso boccheggia nelle pozze quando la marea
rapidamente si ritira dalla spiaggia.
“Avresti pensato
che facessero queste costose casette almeno a prova
di incendio. Diavolo, lei prese fuoco come un’esca,
tutto quanto, tetto e pareti,
tranne le tegole e quella sfera di vetro.
Le troverai da qualche parte in mezzo alla cenere”.
Bruciando, bruciando, lei affrontava i secoli,
un cumulo metabolico che solo il tempo,
la via delle fiamme e della cenere, avrebbero saputo ridurre.
Muoversi era una tortura, perché muoversi, dunque?
Il suo momento svanì, o meglio si spense. Lei
rivolse la mente alle questioni pratiche.
Era un mostro. Bene, facciamoli pagare;
e due volte al giorno si faceva tirare su da loro
contro lo sguardo che la lavava come un mare,
mentre lei ricambiava uno sguardo fisso come roccia, un promontorio
che mangiava cioccolata. L’imbonitore esaltava il suo credo,
“Non crederete ai vostri occhi, lei è impossibile,”
e lei fantasticava malefici su quel mare di facce.
Tra un’esibizione e l’altra montava sulla carrozza bagagli.
Più di una volta però non dormì sola;
la tentazione aleggiava come fumo tra gli odori
di gin e di elefanti, quando mani con unghie orlate di nero
svolazzavano passando la bottiglia tutto intorno.
Era sbalordita all’arrivo dei suoi amanti,
furtivi e ubriachi, si arrischiavano a quel letto di mammuth.
Allo zampettare dell’alba si volatilizzavano come topi. Nessuno
si faceva più rivedere.
“Cosa puoi fare
con una donna così strampalata?
Si sedeva lì ogni giorno.
Lei sapeva, sapeva.”
Tra una gioia e l’altra di starsene a fissare il mare
(“Il mio pubblico, i bruti – tutti quanti”)
coltivava una mente fredda e mangiava,
mangiava ogni cosa bene in vista, diceva l’imbonitore.
Prese un andazzo meccanico, e comprò un giocattolo,
una bambola all’estremità di una corda, i cui buffi atteggiamenti
placavano la sua massiccia immobilità. Tirava
la corda con un dito grasso mentre leggeva
trattatelli di astrologi – interpretazioni,
sistemi, profezie. “Sciocchezze”, diceva,
e lasciava cadere i libri attorno a sé sul pavimento.
E in più comprò una graziosa sfera di cristallo.
Per lo più mangiava, un ritmico schiacciare e masticare,
sentendo l’amore fluire dalle mascelle come sangue.
Tonda, smisurata e ornata di perle appannate
che le pendevano come catene dalla macchina oliata del collo,
se ne stava seduta, una regina, una vistosa gigantessa,
fertile, non amata, oscena, la madre essenziale,
che partorì lungo interminabili anni di doglie
senza un grido e ci maledì tutti dando
la vita per essere l’immagine del nostro amore,
la sua maledizione estrema; noi erriamo nel nostro amore,
sconsolati e codardi e liberi,
dando calci alle monetine arrugginite sulla sua tomba.
“Fu quella sfera di cristallo la sua rovina, alla fine.”
Non avrebbe rinunciato al trionfo più che alla sua pena,
e quando fu stanca dei vagoni, costruì
una casa attorno a una finestra e una sedia,
una finestra larga abbastanza da incorniciare i bruti,
una sedia . . . beh, grande abbastanza per lei. E ancora
venivano a guardare, di nascosto, al di là
del prato, per vedere il mostro, pure se lei addebitava
solo la quota del suo gelido disprezzo.
In trono, immobile, gli rimandava occhio per occhio
attraverso l’ampia vetrata. La stagione cambiava, e il sole
batteva ogni giorno più vicino alla sua sedia,
e infine entrò dentro quella sfera di cristallo,
un raggio fumante che cadde su una pagina
di uno dei libri aperti intorno alla sua sedia.
La carta annerì, e la fiamma in principio
era pallida, quasi invisibile, ma si propagò
da foglio a foglio, ingiallendo, danzando, danzando,
come la bambola all’estremità della corda, e presto circondò
la sedia con un anello rauco, un anello di fiamme,
tutto allegro e ardente in un mondo sottosopra, un urrà
e un vortice, e “Hink!” squittì lei, e rideva e rideva
finché pensò che sarebbe morta. “Ora vi tengo in pugno, bruti”,
gridò, e le lacrime caddero e presto si asciugarono.
L’unico mondo che sapevo amare era morto.
THE WOMAN’S GENITALS
Oh this world and oh this dear worldbody
See how it had become become become
How it has flowered and how it has put on gaudy
Appearances how it is a plum
In its ripening in its reddening a berry
In its glittering a finch in its throbbing a cowry
In its extraordinary allusiveness a night
Of midsummer in its fragrance a tide
In its deepsurging and a dark woodland spring
In its concealing sources
See how it is velvety how its innerness clings
And presses how nearly it repulses
How it then takes and cherishes how it is austere
How it is free how it reviles abuses
And how it is here and how it was always here
I GENITALI DELLA DONNA
Oh questo mondo e oh questo caro corpomondo
vedi com’è diventato diventato diventato
com’è fiorito e come si è messo in tenuta di gala come è una prugna nel suo maturare nel suo arrossarsi una bacca nel suo scintillare un fringuello nel suo palpitare una ciprea nella sua allusività straordinaria una notte di mezza estate nel suo profumo una marea nel suo moto di profondità e una polla scura di terra boschiva nel suo nascondere sorgenti vedi com’è morbido, come il suo interno si aggancia e preme come quasi respinge come accoglie poi e culla come è austero com’è libero e come inveisce agli abusi e com’è qui e com’è sempre stato qui |
NOTE SULL’AUTORE E SULLA TRADUTTRICE
Hayden Carruth (Waterbury, Connecticut, 1921-Munnsville, NY, 2008) è stato uno dei più originali poeti e critici americani contemporanei. Varie gravi problematiche (agorafobia, alcol, crolli nervosi, ricoveri) lo portarono a una vita itinerante e a uno stretto contatto con la natura, che gli donò sollievo fisico e psicologico. Per il lungo isolamento arrivò alla notorietà solo negli anni settanta, e ricevette i maggiori riconoscimenti, come il National Book Critics Circle Award, il Pulitzer e il National Book Award nel ventennio successivo. Ha pubblicato saggi, un romanzo e una trentina di libri di poesia conciliando cultura e capacità comunicativa ed esplorando temi come la follia, la solitudine, la morte, la bellezza e fragilità del mondo. Grande appassionato di jazz ne ha trasfuso il ritmo nei versi, sperimentando forme aperte e chiuse. Sua creazione il paragraph, complessa rivisitazione del sonetto in quindici versi variamente rimati e accentati.
Fiorenza Mormile ha pubblicato tre libri di poesia. Ha curato l’antologia Matrilineare, Madri e figlie nella poesia italiana dagli anni Sessanta ad oggi, La Vita Felice, 2018 insieme a L. Magazzeni, B. Porster e A. M. Robustelli, con cui ha curato e tradotto anche La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese, La Vita Felice, 2015 e Corporea. Il corpo nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese, Ed. Le Voci della Luna 2009. Nell’ambito del Laboratorio di traduzione romano Monteverdelegge, che coordina, ha curato con saggio introduttivo Eleanor Wilner, Tutto ricomincia, Gattomerlino edizioni, 2016, tradotto insieme a M. A. Basile, A. M. Rava, A. M. Robustelli, P. Splendore e J. Wilkinson; con M. A. Basile, A. M. Rava, A. M. Robustelli e P. Splendore ha tradotto Philiph Schultz, Erranti senza ali, Donzelli, 2016, Premio per la traduzione Morlupo Città della Poesia 2016.
8. Jean-Baptiste Para traduce dall’italiano un testo di Alberto Nessi
IL NE FAUT PAS DIRE
Il ne faut pas dire feu si le lierre en septembre
ne porte pas un papillon aux ailes de braise
vers les fleurs où les abeilles butinent
et les feuilles en forme de cœur qui rampent sur les murs
il ne faut pas dire pluie si l’escargot se tait
le long des sentiers de l’adolescence,
si les morts sont emportés par les brumes de l’oubli
comme par un éboulement de rochers
il ne faut pas dire automne si dans le cadre bleu de la fenêtre
personne ne répond, si dans la nuit des songes
tous les tambours sont muets,
si les oiseaux sont partis
il ne faut pas dire amour si la colline des yeux
n’est pas le miroir des vignes et de la renaissance
du feuillage au-delà des cendres,
si le sourire s’éteint avant même de naître
il ne faut pas dire beauté si la perle de l’aube
ne s’allume pas pour tous dans le matin,
si l’espérance n’offre pas une branche robuste
au vagabond égaré dans le brouillard
il ne faut pas dire patrie si l’ombre de la pierre
ne donne pas asile à l’âme errante
de celui qui déserte les silences de mort
pour rejoindre une parole qui ne ment pas
il ne faut pas dire ciel si les hommes se tuent
encore et toujours aux quatre coins du monde,
si la vie est une loque qui dérive
au gré des vents de haine et de folie
il ne faut rien dire si la lumière ne resplendit pas
Non dire
Non dire fuoco se l’edera a settembre
non porta una farfalla con ali di fiamma
sui fiori dove le api bottinano
tra foglie a cuore arrampicate ai muri
non dire pioggia se la chiocciola tace
lungo i sentieri dell’adolescenza,
se i morti sono travolti dalla foschia
della dimenticanza come da una frana di sassi
non dire autunno se nessuno risponde
nell’azzurro riquadro della finestra,
se muto è ogni tamburo nella notte
dei sogni, se gli uccelli sono partiti
non dire amore se la collina degli occhi
non riflette i vigneti e la rinascita
delle foglie che crescono dopo la cenere,
se prima di nascere il sorriso si spegne
non dire grazia se la perla dell’alba
non s’accende per tutti nel mattino,
se la speranza non offre un ramo saldo
a chi vaga smarrito nella nebbia
non dire patria se l’ombra della pietra
non offre asilo all’anima errante
di chi fugge da silenzi di morte
verso una parola che non mente
non dire cielo se gli uomini s’ammazzano
ancora e sempre sulle vie del mondo,
se la vita è uno straccio portato via
dal vento dell’odio e della follia
non dire niente se luce non splende.
NOTE SULL’AUTORE E SUL TRADUTTORE
Alberto Nessi, nato a Mendrisio (1940), è uno dei più noti poeti-scrittori svizzeri di lingua italiana. Pubblicazioni: I giorni feriali (1969), Il colore della Malva (1992), Blu cobalto con cenere (2000); i racconti Terra Matta (1984) ottengono anche molto successo di critica. Nel 2015 con la raccolta di racconti Milò, entra in terna finale del premio Chiara.
Nel 2016 è stato insignito dalla Confederazione Elvetica del Gran Premio svizzero di letteratura alla carriera. Autore anche di saggi e antologie.
Jean-Baptiste Para, è nato nel 1956. Poeta e critico d’arte, è capo-redattore della rivista letteraria Europe. Ha ricevuto il premio Apollinaire nel 2006 per la sua raccolta La Faim des ombres. Ha tradotto un saggio su Pierre Reverdy e ha tradotto in francese poeti italiani e russi. La sua attività di traduttore è stata premiata con il premio Nelly Sachs e il premio Etienne Dolet.
9. Anna Maria Robustelli traduce dall’inglese due testi di Maureen Duffy
Due poesie di Maureen Duffy al tempo della pandemia. In entrambe si respira una concreta vena ecologica: in Pandemic la rassegna dei mali quotidiani di un virus che infesta non solo il fisico, ma soprattutto la nostra mente, la nostra gioia di vivere e di relazionarci con gli altri scorre parallela al rammarico per un mondo già depredato delle sue foglie e delle sue ali di farfalla dagli stessi esseri umani. Serrati in case-prigione, più soli delle donne che si muravano vive, sembra che non abbiamo altra scelta che custodire la nostra paura in attesa di essere divorati da questa terribile entità. Ma la visione di una poeta è capace di districarsi dall’ oscuro dell’isolamento e del distanziamento sociale, illuminando (in Summer Comes to the Urban Garden) umili fiori e animali che soggiornano ai bordi dei muri, dei marciapiedi e delle strade che solchiamo tutti i giorni anche per brevi percorsi. In questa irrilevante giungla cittadina, tra antenne e fili del telefono una marea di fiori dimenticati sbocciano e rifulgono intraprendenti e felici: rose, campanule, farfare, tarassaci… e poi anche comuni piante coltivate come i gerani, le clematidi, le ortensie…mentre merli, colombacci e piccioni attirano la nostra attenzione. Che la natura rimanga con noi e si faccia vedere e sentire è di certo una grande sorpresa.
Summer Comes to the Urban Garden
The rambler is putting on white for June
the marrying month, and for the pink New Dawn
climbing a neighbour’s fence, while
the blackbird aloft on an aerial
lets fall his aria into the smoky air
and wild campanula has colonised
the crannies between wall and pavement
along the street with its little blue stars
outdoing coltsfoot, dandelion, shepherds’ purse.
In the gusty wind the tall plane tree
tosses its head against the telephone wires.
Dandy in rose shirt front, grey jacket white collar,
the wood pigeon begs Betty to mind his sore foot
while his feral cousins burble
in the gutter. Campanula
pitches her seeds past tamed window box
geraniums into backyards
to sprawl at the feet of clematis
fuchsia, hydrangea, winding them
in its long green tresses.
Unpublished 24 May 2020
L’estate giunge sul giardino urbano
La rosa rampicante si prepara a tingersi di bianco per giugno
il mese degli sposi, e per la New Dawn rosa
che si arrampica sul recinto di un vicino, mentre
il merlo in alto su un’antenna
rilascia il suo verso nell’aria fumosa
e la campanula selvatica ha colonizzato
le crepe tra il muro e il marciapiede
sulla strada con le sue piccole stelle azzurre
che superano la farfara, il tarassaco e la borsa di pastore.
Nel vento impetuoso il grande platano
scuote la testa contro i fili del telefono.
Dandy con il petto della camicia rosa, colletto bianco in giacca grigia,
il colombaccio implora Betty di occuparsi del suo piede dolente
mentre i suoi cugini selvatici gorgogliano
nella grondaia. La campanula
getta i suoi semi al di là della cassetta dei gerani
coltivati nei cortili
perché si spargano ai piedi della clematide
fucsia, dell’ortensia, avvolgendole
nelle sue lunghe trecce verdi.
[Inedito 24 maggio 2020]
PANDEMIC
We are the virus Corvine 2020.
Spread over the face of the earth,
Silencing the cities, hushing town and village,
Colonising space and time as if
The planet wasn’t enough for our millions
to despoil, denude of leaf and butterfly wing
Until we can no longer look each other in the eye,
Take another in our arms, all bound together
By a lonely death, locked down in our dens by fear
In a half life no longer hardly worth enduring,
And even time has contracted to our prison walls
Let out once a day like a dog on a leash
Freed shortly to walk under the sky,
Then in again to solitude. I think of those nuns
Immured by choice and how they were allowed
To make pleasing gestures through a window slot.
We have no such freedom, can’t refuse our prison,
Shut up in this night like chickens caged safe
From our fox who’s a many headed hydra
With sharp claws to pull us down for all
Our squawks, and attempts at flight, until
We suck it in to colonise our spongy lungs
Giving it safe harbour while it gobbles us up.
Nel tempo della pandemia
Siamo il coronavirus 2020,
diffuso sulla faccia della terra,
che silenzia città, mette a tacere centri urbani e campagna,
colonizza lo spazio e il tempo come se
non bastasse che il pianeta fosse depredato da milioni
di persone, spogliato di foglie e di ali di farfalle
al punto che non possiamo più guardarci negli occhi,
prendere qualcuno tra le braccia, tutti tenuti assieme
da una morte solitaria, rinchiusi nelle nostre tane per la paura
in una vita a metà che non vale più la pena di essere a stento sopportata,
e anche il tempo si è ridotto alle pareti delle nostre prigioni
lasciati uscire una volta al giorno come un cane al guinzaglio
liberi per poco di camminare sotto il cielo,
poi dentro di nuovo in solitudine. Penso a quelle suore
murate per scelta e a come era loro permesso
di fare gesti di piacere attraverso la fessura di una finestra.
Noi non abbiamo quella libertà, non possiamo rifiutare la nostra prigione,
serrati in questa notte come polli ingabbiati al sicuro
dalla nostra volpe che è un’idra dalle molte teste
con artigli affilati per buttarci giù nonostante tutte
le nostre strida e i tentativi di fuga, finché
lo risucchiamo per fargli colonizzare i nostri polmoni spugnosi
dandogli un porto sicuro mentre ci divora.
NOTE BIO SULL’AUTRICE E SULLA TRADUTTRICE
MAUREEN DUFFY was born in Sussex and is a poet, playright, novelist and biographer. She has pubished forty books and sixteen plays. She is the President of the Authors Licensing and Collecting Society and Vice President of the Royal Society of Literature. She is London President of the British Copyright Council, and a fellow of King’s College London. She was made a D.Litt. by Loughborough University and the University of Kent for services to literature and equality law. Duffy lives in London.
MAUREEN DUFFY è nata nel Sussex ed è poeta, drammaturga, romanziera e biografa. Ha pubblicato quaranta libri e sedici opere teatrali. É presidente della Authors Licensing and Collecting Society e vicepresidente della Royal Society of Literature. È la presidente londinese del British Copyright Council e un membro del King’s College di Londra. È stata nominata Doctor of Letters dall’Università di Loughborough e dall’Università del Kent per servizi resi alla letteratura e alla legge sull’uguaglianza. Duffy vive a Londra.
ANNA MARIA ROBUSTELLI, poeta e traduttrice , ha insegnato inglese nella Scuola Superiore. È stata presidente dell’Associazione Donna e Poesia. Nel 2009 è uscito Corporea, il corpo nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese (Le Voci della Luna) con L. Magazzeni, F. Mormile e B. Porster. Con le stesse persone ha curato La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese (La Vita Felice 2015) e Matrilineare Madri e Figlie nella poesia italiana dagli anni sessanta a oggi (La Vita Felice, 2018). Nell’ambito del Laboratorio di Monteverdelegge ha pubblicato la traduzione di Erranti senza ali di P. Schultz a cura di P. Splendore (Donzelli Poesia, 2016) insieme a M. A. Basile, F. Mormile, A. M. Rava e P. Splendore, e di Tutto ricomincia, di E. Wilner, a cura di F. Mormile insieme a M.A. Basile, F. Mormile, A. M. Rava, P. Splendore e J. Wilkinson (gattomerlino, 2016).
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