Oltre ai poeti, la XIVª edizione del Festival Internazionale di Poesia Palabra en el mundo di Venezia prosegue nell’omaggio a Mario Geymonat, quest’anno a cura di Anna Chahoud, Charlie Kerrigan e Rodolfo Funari.
Biografia
Anna Chahoud
Anna Chahoud detiene la cattedra di lingua e letteratura latina presso il Department of Classics, Trinity College, Dublin. Si occupa principalmente di linguistica antica e di letteratura latina arcaica. Il suo primo incontro con Mario Geymonat fu tramite il saggio ‘Tirsi critico di Lucilio nella settima ecloga virgiliana’ (Orpheus 2, 1981, 366-370). Da oltre vent’anni tiene lezioni sull’Eneide.
Charlie Kerrigan
Charlie Kerrigan è ricercatore di lingua e letteratura latina presso il Department of Classics, Trinity College, Dublin. Il suo studio sulla ricezione delle Georgiche nella storia dell’impero britannico, Virgil’s Map, uscirà per Bloomsbury in Settembre 2020. Attualmente lavora sulle ricezioni al femminile della poesia virgiliana nelle opere di Willa Cather, Ursula Le Guin, e Laura Marling.
Rodolfo Funari
Rodolfo Funari, insegnante di materie letterarie nei Licei, nella sua attività scientifica si è occupato prevalentemente di storiografia latina. In particolare, ha realizzato un commento filologico e linguistico ai frammenti di tradizione indiretta delle Historiae di Sallustio, pubblicato in due volumi nel 1996 sotto il patrocinio dell’antico maestro prof. Mario Geymonat. È stato collaboratore del Thesaurus linguae Latinae, per il quale ha realizzato diverse voci. Per incarico del Centro di Studi Papirologici dell’Università del Salento, sotto la direzione del prof. Mario Capasso, ha realizzato nel Corpus dei Papiri Storici Greci e Latini le edizioni commentate dei frammenti da papiro e pergamena provenienti dall’Egitto di Sallustio (2008), di Tito Livio (2011) e degli Adespota storici latini (2014). Attualmente, in collaborazione con Antonio La Penna, sta attendendo a un progetto di edizione commentata delle Historiae di Sallustio, di cui è già uscito il I volume.
Letture
Poesia
Virgilio, «Egloga IX»
- R. A. B. Mynors, 1972 via PHI Latin
Lycidas
Quo te, Moeri, pedes? an, quo uia ducit, in urbem?
Moeris
O Lycida, uiui peruenimus, aduena nostri
(quod numquam ueriti sumus) ut possessor agelli
diceret: ‘haec mea sunt; ueteres migrate coloni.’
nunc uicti, tristes, quoniam fors omnia uersat, 5
hos illi (quod nec uertat bene) mittimus haedos.
Lycidas
Certe equidem audieram, qua se subducere colles
incipiunt mollique iugum demittere cliuo,
usque ad aquam et ueteres, iam fracta cacumina fagos,
omnia carminibus uestrum seruasse Menalcen. 10
Moeris
Audieras, et fama fuit; sed carmina tantum
nostra ualent, Lycida, tela inter Martia quantum
Chaonias dicunt aquila ueniente columbas.
quod nisi me quacumque nouas incidere lites,
ante sinistra caua monuisset ab ilice cornix, 15
nec tuus hic Moeris nec uiueret ipse Menalcas.
Lycidas
Heu! cadit in quemquam tantum scelus ? heu, tua nobis
paene simul tecum solacia rapta, Menalca!
quis caneret Nymphas? quis humum florentibus herbis
spargeret aut uiridi fontis induceret umbra ? 20
uel quae sublegi tacitus tibi carmina nuper,
cum te ad delicias ferres Amaryllida nostras?
Tityre, dum redeo (breuis est uia), pasce capellas,
et potum pastas age, Tityre, et inter agendum
occursare capro (cornu ferit ille) caueto 25
Moeris
Immo haec, quae Varo necdum perfecta canebat:
Vare, tuum nomen, superet modo Mantua nobis,
Mantua uae miserae nimium uicina Cremonae,
cantantes sublime ferent ad sidera cycni.
Lycidas
Sic tua Cyrneas fugiant examina taxos, 30
sic cytiso pastae distendunt ubera uaccae,
incipe, si quid habes. et me fecere poetam
Pierides, sunt et mihi carmina, me quoque dicunt
uatem pastores ; sed non ego credulus illis.
nam neque adhuc Vario uideor nec dicere Cinna 35
digna, sed argutos inter strepere anser olores.
Moeris
Id quidem ago et tacitus, Lycida, mecum ipse uoluto,
si ualeam meminisse ; neque est ignobile carmen.
huc ades, o Galatea ; quis est nam ludus in undis ?
hic uer purpureum, uarios hic flumina circum 40
fundit humus flores, hic candida populus antro
imminet et lentae texunt umbracula uites.
huc ades ; insani feriant sine litora fluctus.
Lycidas
Quid, quae te pura solum sub nocte canentem
audieram? numeros memini, si uerba tenerem: 45
Daphni, quid antiquos signorum suspicis ortus ?
ecce Dionaei processit Caesaris astrum,
astrum quo segetes gauderent frugibus et quo
duceret apricis in collibus uua colorem.
ínsere, Daphni, piros: carpent tua poma nepotes. 50
Moeris
Omnia fert aetas, animum quoque. saepe ego longos
cantando puerum memini me condere soles.
nunc oblita mihi tot carmina, uox quoque Moerim
iam fugit ipsa: lupi Moerim uidere priores.
sed tamen ista satis referet tibi saepe Menalcas. 55
Lycidas
Causando nostros in longum ducis amores.
et nunc omne tibi stratum silet aequor, et omnes,
aspice, uentosi ceciderunt murmuris aurae.
hinc adeo media est nobis uia ; namque sepulcrum
incipit apparere Bianoris. hic, ubi densas 60
agricolae stringunt frondes, hic, Moeri, canamus;
hic haedos depone, tamen ueniemus in urbem.
aut si nox pluuiam ne colligat ante ueremur,
cantantes licet usque (minus uia laedet) eamus ;
cantantes ut eamus, ego hoc te fasce leuabo. 65
Moeris
Desine plura, puer, et quod nunc instat agamus ;
carmina tum melius, cum uenerit ipse, canemus.
* ed. R. A. B. Mynors, 1972 via PHI Latin
Traduzione di Mario Geymonat
LICIDA: Dove ti dirigi, Meri? Forse in città, dove porta la strada?
MERI: O Licida, vivi siamo giunti al punto che uno straniero ‒ cosa che non avremmo mai temuto ‒, diventato padrone del nostro campicello, possa dire: «Questa è roba mia; andatevene, vecchi contadini». Ora vinti, tristi, poiché il Caso muta a capriccio ogni cosa, gli mandiamo questi capretti, ma non gliene venga buon pro.
LICIDA: Eppure avevo sentito come cosa certa che dove i colli cominciano a digradare e a piegare la cima in dolce pendio, fino all’acqua e ai vecchi faggi dalle cime ormai spezzate, tutto con i suoi carmi aveva salvato il vostro Menalca.
MERI: L’avrai sentito e ne corse la voce; ma i nostri carmi, Licida, valgono tra le armi di Marte solo quanto, si dice, le caonie colombe all’arrivo delle aquile. Che se una cornacchia da un cavo leccio a sinistra non mi avesse prima ammonito a troncare in qualsiasi modo nuove liti, questo tuo Meri non vivrebbe più, né lo stesso Menalca.
LICIDA: Ahi, qualcuno può essere vittima di un delitto così terribile? Ahi, per poco insieme con te non ci furono tolte anche le consolazioni che tu ci dai, Menalca! Chi canterebbe le ninfe? Chi cospargerebbe la terra di erbe fiorite o coprirebbe di verde ombra le fonti? O il canto che ti levai di soppiatto poco fa, mentre ti recavi dal nostro amore Amarilli: «Titiro, finché torno ‒ la via è corta ‒ pascola le caprette e, pasciutele, portale a bere, Titiro, e nel condurle bada a non andar contro al caprone: esso ferisce col corno».
MERI: Piuttosto questi versi, che ancora incompiuti cantava a Varo: «Varo, il tuo nome i cigni col loro canto leveranno in alto alle stelle, purché ci resti Mantova, Mantova ahimè troppo vicina all’infelice Cremona!»
LICIDA: Possano i tuoi sciami evitare i tassi di Cirno, possano le tue vacche pasciute di trifoglio colmare le poppe; dai inizio al canto, se hai qualcosa da cantare. Anche me resero poeta le Pieridi, anche io ho canzoni, me pure chiamano vate i pastori; ma io non credo a loro: ancora non mi sembra infatti di comporre cose degne di Vario né di Cinna, ma di strepitare come oca fra i cigni melodiosi.
MERI: È appunto ciò che faccio e in silenzio, Licida, rimugino fra me stesso, se mi riesce di ricordare; e non è un canto ignobile. «Vieni qui, o Galatea; che piacere c’è dunque fra le onde? Qui è la splendente primavera, qui sulle rive dei fiumi la terra sparge fiori variopinti, qui un candido pioppo sovrasta una grotta e le viti flessibili intessono ombrosi pergolati. Vieni qui, lascia che i flutti battano furiosi i lidi».
LICIDA: E quei versi che ti avevo udito cantare da solo nella notte serena? Ricordo il motivo: se ricordassi le parole!
MERI: «Dafni, perché osservi il sorgere antico degli astri? Ecco è apparsa la stella di Cesare Dioneo, stella per cui i campi si allietano di messi e per cui l’uva prende colore sui colli solatii. Innesta i peri, Dafni; i nipoti coglieranno i tuoi frutti». Tutto porta via il tempo, anche la memoria: ricordo che spesso da ragazzo trascorrevo cantando lunghe giornate; ora ho scordato tante canzoni, anche la stessa voce fugge ormai Meri; i lupi videro Meri per primi. Tuttavia questi canti te li potrà ripetere più spesso Menalca.
LICIDA: Rinvii con pretesti i miei desideri. Ed ora tutta la piana tace distesa dinanzi a te ed è caduto, guarda, ogni soffio di vento mormorante; qui siamo proprio a metà del cammino; e infatti comincia ad apparire il sepolcro di Bianore. Qui, dove i contadini sfrondano il denso fogliame, qui, Meri, cantiamo; qui deponi i capretti, arriveremo ugualmente in città. O se temiamo che la notte addensi prima la pioggia, possiamo procedere continuando a cantare (il cammino sarà così meno faticoso); perché si cammini cantando, ti alleggerirò di questo fardello.
MERI: Cessa di parlare, ragazzo, e facciamo ciò che ora preme; canteremo meglio le canzoni allora, quando egli stesso sarà arrivato.
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Letture in latino di: Anna Chahoud e Charlie Kerrigan
Selezione foto a cura di: A. Chahoud e C. Kerrigan
Foto di C. Kerrigan e di generosi autori @ https://unsplash.com
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